Il romanzo “Prima dell’alba” di Malaguti è costruito seguendo un criterio che potremmo definire “binario”: i capitoli dispari sono ambientati nel 1917, nel momento della disfatta di Caporetto, e raccontano di un veterano, detto il Vecio, che cerca di sopravvivere nell’inferno della trincea prima e della ritirata poi; i capitoli pari invece sono un vero e proprio giallo ambientato nella Firenze del 1931, il cui protagonista è l’ispettore di polizia Malossi, reduce di guerra. Le due storie si uniscono solo nell’ultimo capitolo.
Le atrocità, compiute dai nostri stessi signori della guerra negli anni 1915/18 contro i loro subordinati, ora sono ben note, ma nel 1931 nessuno doveva sapere: la narrazione d’obbligo era quella dell’eroismo dei nostri soldati, della gloria dei nostri generali e della grandezza del Paese. Ma la realtà è stata ben diversa: migliaia di giovani sono stati passati per le armi per aver disobbedito a ordini assurdi, per semplici infrazioni a regole disciplinari o per aver ceduto alla paura della battaglia.
Dal punto di vista del linguaggio usato, il Malaguti ha attinto a piene mani dal gergo militare e dal dialetto veneto nei capitoli dispari, mentre ha usato un perfetto stile letterario in quelli pari.
A mio avviso il Malaguti si è molto ispirato a Camilleri, almeno per quanto riguarda l’artificio dell’uso del dialetto e la scelta di dare la struttura del giallo al suo romanzo.
In definitiva è stata una lettura interessante, anche se ritrovare gli orrori della guerra è sempre un’ angoscia sconvolgente
Ieri si è aperta allo Youthlab la mostra fotografica “MARGINALITA’: ritratti di invisibili”.
L’autrice, Ljdia Musso, ha esposto una serie di scatti fotografici che ritraggono i “senzatetto” in varie città e località italiane e straniere. Le foto sono montate su support rivestiti con collage di carta di giornale ( è coi giornali infatti che spesso gli “invisibili” si riparano o allestiscono il loro angolo di marciapiede). In un angolo è posato a terra un materasso con l’immancabile borsa di plastica, una bottiglia, una coperta.
A terra, addossati alle pareti, ci sono dei pannelli di cartone (recuperati da scatoloni) che riportano alcune frasi dell’Abbé Pierre, il fondatore delle comunità di Emmaus, il primo a occuparsi dei più emarginati. Ora sono tante nel mondo le comunità che si ispirano all’Abbé Pierre e il loro approccio alla solidarietà varia da paese a paese: qui da noi raccolgono l’usato e il ricavato serve a sostenere le comunità delle zone più povere, dove riesce ad assegnare piccoli crediti alle donne che riescono così a realizzare piccole attività con cui mantenere i figli e ripagare il debito. Altrove si occupano di incentivare i piccoli agricoltori.
Questa mostra ha il merito di farci fermare a riflettere su quanti nelle nostre città sono in condizioni di estrema povertà, tanto da non potersi permettere una casa; li vediamo ogni giorno rannicchiati in qualche angolo di strada e i nostri occhi si sono talmente abituati alla loro presenza che non ci sentiamo più interpellare dai loro bisogni, dalle loro sofferenze. Grazie perciò a Maria Luisa dei Trapeiros e grazie alla giovane Ljdia, che ha illustrato e commentato le sue foto con evidente viva partecipazione al dramma degli invisibili.
Trovandomi sul posto, ho potuto visitare l’ex-stazione ferroviaria (è lì che è allocata la mostra), concessa in comodato gratuito alla cooperativa “concerto” e ristrutturata con i fondi donati dalla Cariplo. Vi trovano sede varie associazioni di giovani e meno giovani per svolgere attività di promozione culturale e ricreative. Può essere un’opportunità offerta all’associazionismo erbese.
Alle 15.00 il dottor Rigamonti introduce la sua lezione sulla “Immunoterapia” e le vaccinazioni.
L’Immunoterapia è il metodo più importante per la cura delle patologie basate su sostanze che agiscono sul sistema immunitario.Il sistema immunitario è un nostro patrimonio, ma anche degli animali, che cresce e si sviluppa con noi. Quando il bambino è molto piccolo prende le difese anticorpali dal latte materno. Poi a tre mesi il bambino comincia a fare le vaccinazioni; fa i richiami a sei mesi e, infine, a un anno. A questa età il bambino, dopo tre richiami delle vaccinazioni base e consigliate, è già immune da non farsi infettare da virus tipo la rosolia, il morbillo, la pertosse, l’epatite A e B e altre. In sintesi, l’immunoterapia è andare a prendere un anticorpo già precostituito e iniettarlo nella persona.
L’anticorpo si può creare in due modi, ci dice il dottore: o prendendo la malattia e superandola, o facendo il vaccino. A seconda delle circostanze, l’immunoterapia ha lo scopo di indurre, amplificare o sopprimere una risposta immunitaria da parte dell’organismo.
A tal proposito, continua il dottore, possiamo distinguere due tipi di immunoterapia:
Immunoterapia di soppressione: sono le terapie che si usano per le allergie, perché sopprimono la iper-risposta dell’organismo. Questa terapia richiede l’uso degli antistaminici.
Immunoterapia di attivazione: sono le terapie che cercano di indurre o di amplificare una risposta immunitaria. È questo il caso dei vaccinie dell’immunoterapia oncologica, ossia dell’immunoterapia impiegata nel trattamento di tumori.
Il dottore ci ha parlato, poi, proprio dell’Immunoterapia Oncologica. Ci ha spiegato che il sistema immunitario non riconosce i tumori perché essi sono cellule dell’organismo e non estranee ad esso. Le cellule del nostro organismo espongono sulla propria superficie molecole di diversa natura, come proteine e carboidrati; le cellule maligne, invece, molecole diverse da quelle esposte dalle cellule sane. Queste molecole prendono il nome di antigeni tumorali. L’immunoterapia oncologica sfrutta proprio questo fenomeno: le cellule del sistema immunitario possono essere in grado di individuare gli antigeni tumorali e di attaccare le cellule malate che li espongono.
L’immunoterapia oncologica può essere suddivisa in tre gruppi principali:
Terapia cellulare;
Terapia anticorpale;
Terapia con citochine.
La terapia cellulare prevede la somministrazione dei vaccini contro il cancro: vengono prelevate cellule immunitarie da pazienti affetti da tumore. Una volta prelevate, le cellule immunitarie vengono attivate in modo da riconoscere in maniera specifica le cellule tumorali, quindi coltivate in vitro e, infine, restituite al paziente. In questo modo, una volta tornate nell’organismo, le cellule immunitarie specifiche per il tumore dovrebbero essere in grado di identificarlo ed attaccarlo.
La terapia anticorpale prevede che, un anticorpo riconosce un antigene , questi interagiscono l’uno con l’altro con una sorta di meccanismo “chiave-serratura“. Quando avviene l’interazione antigene-anticorpo – quindi quando la chiave è “inserita” – l’anticorpo si attiva, dando inizio alla risposta immunitaria dell’organismo.
Per quando riguarda la terapia con citochine, il dottore ci ha spiegato che le citochine sono responsabili della comunicazione tra le varie cellule del sistema immunitario e, alcune di esse, sono prodotte dallo stesso sistema immunitario.
Per finire, il dottore ci ha elencato gli effetti collaterali della Immunoterapia.
Ci ha spiegato che essi possono essere causati dall’iperattività del sistema immunitario.
Può capitare, infatti, che il sistema immunitario attacchi, non solo le cellule malate, ma anche quelle sane perché non è più in grado di riconoscerle come tali. Gli effetti più comuni possono essere:
Stanchezza;
Prurito;
Nausea e vomito;
Diarrea;
Tuttavia, dalle ricerche effettuate fino ad Aprile 2015, risulta che è stato approvato solo un vaccino per il cancro alla prostata.
Molti altri vaccini sono già in fase di sperimentazione, ma non sono ancora utilizzabili. Alla fine della sua lezione il dottor Rigamonti ci parla del CORONAVIRUS, oggetto di preoccupazione e discussione in questi giorni e ci consiglia di vedere un filmato su YouTube intitolato “Coronavirus spiegato in italiano”.
La cultura umana comincia con la tradizione orale che trasmette nel tempo fiabe, favole e miti. La fiaba è caratterizzata in genere da elementi fantastici; la favola ha come protagonisti gli animali ed ha un chiaro intento moralistico (Esopo, Fedro, La Fontaine); il mito ha sempre una dimensione sacra.
Il genere della fiaba ha avuto origine in India e si è poi diffuso in Europa e in Cina, per questo le fiabe europee e quelle cinesi sono molto simili. Sono stati gli antropologi che si sono occupati, in vari paesi, di raccogliere e registrare i racconti tramandati oralmente per secoli.
Giovan Battista Basile riportò quelli che si narravano al sud ne “Lo Cunto de li Cunti” e dalla sua opera i fratelli Grimm, in Germania, trassero molto materiale per i loro libri; Andersen in Danimarca raccolse racconti popolari e altri ne inventò. A Roma esiste una discoteca che conserva le registrazioni di fiabe che le donne anziane del sud e di altri territori solevano raccontare ai più piccoli.
Le fiabe hanno come nesso comune il rapporto con il male: la narrazione educa a riconoscere e a discernere il bene e il male e gli elementi di crudeltà di cui sono spesso pervase, hanno il fine di insegnare come fermare il male e trionfare su di esso.
Mentre delle fiabe europee non si conosce l’autore e la loro origine si perde nella notte dei tempi, le fiabe giapponesi hanno una datazione e un autore certo e riportano a un simbolismo molto lontano dalla nostra cultura. Spesso da noi la fiaba finisce con la morte del cattivo, nelle fiabe giapponesi la morte dà origine alla storia e risente dello shintoismo, che non è propriamente una religione, ma un modo di scoprire il sacro nella natura e nelle cose.
Muggisce come belva ferita tra i palazzi e per le vie, sospinge la poca gente che passa frettolosa tenendo il bavero del cappotto con le mani.
La furia del vento si accanisce contro ogni cosa; strapazza gli alberi, solleva e sbatte lontano gli arredi da giardino che aspettano l’estate e fa roteare immondizia di ogni genere insieme alle foglie morte.
IO resto chiusa in casa e ascolto la voce rabbiosa del vento.
Ieri sera sono andata con la mia amica D. , segretaria dell’UTE, alla riunione delle Associazioni cittadine, convocata dal Comune di Erba. Ero lì solo per fare compagnia alla mia amica e invece al momento dell’appello ho sentito chiamare il Centro Italiano Femminile, di cui sono presidente. Ero molto sorpresa e ho esitato un attimo a rispondere, tra i sorrisi divertiti dei presenti che non capivano il mio imbarazzo. Ho poi avuto modo di spiegarne il motivo quando mi è stata data la parola.
Erano tante le associazioni presenti e a ognuno dei loro rappresentanti è stato dato modo di presentare la propria attività e i propri progetti; è stato interessante scoprire quante forme diverse può assumere il volontariato, in quante direzioni si esprime la solidarietà e la voglia di cultura. Ho poi sentito in ogni intervento una grande passione per la propria associazione, nonostante la fatica di portarla avanti in tempi non certo facili.
Tutti, infatti, hanno espresso il rammarico per non poter più contare, da molti anni, sul sostegno economico dell’amministrazione comunale, ma tutti hanno convenuto che è bene conoscersi e incontrarsi per poter mettere in atto collaborazioni che mettano a frutto le rispettive competenze e consentano l’ottimizzazione delle scarse risorse disponibili: a guadagnarne sarà l’intera collettività cittadina.
Qualcuno, al momento del congedo, ha chiesto i programmi dell’UTE e questo mi ha fatto piacere.
Alle 15.00, la dr.ssa Anna Sartori, titolare della nota pasticceria di Erba, ci ha parlato dell’utilizzo delle farine alimentari.
Ci ha spiegato che, in passato, soprattutto nei periodi di crisi, come durante le guerre, la cultura gastronomica era legata al nutrimento, perché c’era denutrizione.
Adesso che questo problema non c’è più, il cibo è più che altro un piacere. Tuttavia, questo passaggio della cultura gastronomica dalla necessità del nutrimento al piacere, ha reso i cibi sempre più “raffinati”. La raffinazione, cioè il rendere il cibo più “puro” e più “fine”, ha portato delle conseguenze sul nostro stile alimentare. Il processo di estrazione ha tolto l’equilibrio naturale del cibo. Per esempio, raffinare la farina, vuol dire togliere la crusca.
Dopo questa introduzione, la lezione si è focalizzata sull’uso delle farine.
La docente ha ribadito che la farina raffinata, cioè resa “pura” e “sottile”, può essere considerata un “veleno”. Sono quatto i “veleni” che hanno un impatto negativo sul nostro organismo: sale, zucchero raffinato, latte e farina.
La parola “farina” deriva da FAR – Farro e significa: prodotto della macinazione di frutti o semi.
Quindi, le farine sono prodotte da un’infinità di piante che hanno caratteristiche e proprietà diverse.
Per ricostruire l’equilibrio naturale dei cibi, ribadisce la docente, dobbiamo imparare ad ampliare la conoscenza dei vari tipi di alimenti e saper variare il loro utilizzo. Questo, però, senza dimenticare la “tradizione”.
Infatti, la dottoressa ha concluso la sua lezione parlandoci dei prodotti “tradizionali”, “emozionali” e “d’avanguardia”.
Come alla fine della scorsa lezione, c’è stata una degustazione che ha spiegato praticamente questi concetti. Abbiamo assaggiato un delizioso pezzettino del dolce tipico erbese “masigott” (prodotto tradizionale), un “crumiro” che ricordava i biscotti della nostra infanzia (prodotto emozionale) e un delizioso dolcetto fatto con farina di mais, riso, senza zucchero e senza uova (prodotto d’avanguardia).
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Il prof. Galli, dopo aver ripercorso con noi lo sviluppo del mito del vampiro nella cultura popolare antica e poi la sua introduzione nella letteratura ad opera di numerosi scrittori a partire dall’ottocento, ha oggi concluso il suo ciclo di lezioni su questo tema parlandoci di alcuni scrittori italiani e stranieri che si sono ispirati a questo personaggio inquietante.
Nella letteratura italiana (tra le più gloriose e antiche in Europa), il romanzo giallo o horror è sempre stato ritenuto una produzione di serie B, perciò non ci sono molte opere in questo campo.
Tra i primi a scrivere un racconto ispirato ai vampiri è stato Emilio Salgari: due fratelli partono dalla Sicilia e vanno in America in cerca di oro e, nella foresta, incontrano un grande pipistrello che si nutre del sangue di piccoli mammiferi. Dopo una serie di avventure, i due tornano in Sicilia carichi di oro e vivono felici e contenti.
Dopo Salgari, anche Daniele Oberto Marrama e Luigi Capuana hanno scritto romanzi il cui protagonista è il vampiro; non ha resistito al fascino del personaggio nemmeno il famosissimo Conan Doyle, che, in un suo racconto, con la sua proverbiale razionalità, riesce a dimostrare che colei che era stata ritenuta una vampira è in realtà una creatura di grande altruismo.
L’invenzione del personaggio del vampiro è in definitiva la proiezione della paura del “diverso” e quando, alla fine dell’ottocento, cominciarono le prime manifestazioni delle suffragette, che rivendicavano parità di diritti rispetto agli uomini, eccole diventare nella mente di molti quel “diverso” di cui avere paura. Un poeta come Baudelaire ha rappresentato la donna come creatura malvagia, dal fascino fatale, che porta alla perdizione.
Il terribile fenomeno dei femminicidi che riempiono quotidianamente le cronache odierne testimoniano come ancora molti uomini non riescano accettare che una donna rivendichi il suo diritto alla libertà di decidere della propria vita. (nella foto un affascinante vampiro dei nostri giorni)
Sabato sera è stato un teatro gremito in ogni ordine di posti ad applaudire con grande commozione la fine dello spettacolo “U PARRINU” scritto e interpretato da Christian Di Domenico.
Un monologo, che ha come temi la legalità, la capacità di perdonare e di chiedere perdono, ha catturato l’attenzione degli spettatori, in prevalenza studenti delle scuole medie inferiori e superiori della città e del circondario.
Per quasi un’ora e mezza un silenzio assoluto ha accompagnato la performance dell’attore che ha raccontato come la sua vita sia stata intrecciata in vari momenti alla vita di don Puglisi e ha messo in risalto il coraggio di un piccolo prete che ha trovato nella fede e nell’amore del prossimo la forza di sfidare la violenza mafiosa con la consapevolezza dei rischi cui andava incontro. Quel colpo di pistola che lo ha freddato crudamente davanti alla porta di casa non è arrivato certo inaspettato.
La scelta di mettere in scena questo monologo mi pare doppiamente indovinata; infatti oltre a rendere onore alla memoria del beato don Puglisi, fa toccare con mano la crudeltà e la pervasività della mafia, in un momento in cui statistiche ben documentate testimoniano come la criminalità organizzata stia assediando anche queste nostre zone, un tempo estranee a questi fenomeni