Si era alla fine dell’estate …

Si era alla fine dell’estate. Bisognava raccogliere il mais, seminato in primavera in un campo al “Punt di gaj” (ponte dei galli – non so se scrivere Galli o galli). I terreni erano di proprietà di una famiglia numerosa; ricordo i nomi di qualcuno dei fratelli: Ada, Albertino, Cesarina (che aveva perso una gamba sotto i bombardamenti) . Non so quale tipo di contratto fosse stato stipulato (certamente solo a voce) per consentire ai miei di coltivare uno dei loro campi.

Dopo la semina primaverile seguivo spesso mia madre e mio padre che andavano a sarchiare le piantine durante la loro crescita. A un certo punto, non saprei dire quando, bisognava fare la “séma”, cioè si tagliava la cima della pianta( forse per consentirle di far ingrossare di più le pannocchie?)

Poi le foglie della pianta cominciavano a seccare, il loro ciuffo diventava scuro e quando i chicchi erano ben maturi si decideva il momento del raccolto.

Quell’anno era tornato a casa in licenza mio fratello maggiore Vincenzo che stava facendo il servizio militare e anche lui venne coinvolto nella raccolta del mais. Ho in mente l’immagine di lui che , rosso di fatica , di caldo e grondante sudore, arrivava al carro che sostava sul sentiero e lì scaricava la cassetta piena di pannocchie che portava sulle spalle. Io avevo forse 6/7 anni e collaboravo andando a prendere l’acqua alla fattoria e distribuendola a chi stava lavorando. Quando non ero occupata in questa incombenza andavo spesso nei filari vicini a raccogliere qualche grappolo d’uva ormai quasi matura e me la gustavo anche e soprattutto se era ancora un po’ asprigna. Anche meli e peri godevano del privilegio di qualche mia visita.

Intanto il carro si riempiva e a sera il granoturco veniva scaricato sull’aia . Non ricordo come in quell’occasione si sia effettuata la spannocchiatura, ma ricordo bene una sera quando tutti i vicini si sono radunati su un’aia della contrada per questa operazione.

Al centro le pannocchie formavano una piccola montagna, attorno erano seduti su cassette gli spannocchiatori alla luce flebile di un paio di lampade elettriche. C’era un’aria di festa; i grandi lavoravano e chiacchieravano tra loro e ogni tanto si sentiva lo scoppio di qualche risata . Anche noi bambini ci sentivamo coinvolti in questa atmosfera e partecipavamo per un po’ alla separazione delle pannocchie dalle brattee che le ricoprivano, ma poi ci allontanavamo un po’ dall’aia illuminata e giocavamo a nascondino nel buio.


Per ricompensa gli spannocchiatori ricevevano un bicchier di vino o qualche biscotto preparato dalla “rasdora” e alla fine qualcuno tirava fuori una fisarmonica ( mi pare di ricordare un nome: Luciano) e l’aia diventava una balera all’aperto.

Ricordo che mentre tornavamo a casa, quella musica allegra accompagnava i nostri passi, mentre diventava sempre più flebile…

Un nuovo trend?

Sono in atto cambiamenti epocali, che rendono questo momento storico inquieto e spesso inquietante; tante oscure nubi sembrano voler occupare l’orizzonte: guerre, carestie, tecnologia disumanizzante, cambiamento climatico, disuguaglianze sociali e diritti negati. Cosa resta da fare a noi comuni mortali? Lamentarsi e piangere non ha mai prodotto effetti positivi; forse vale la pena cercare i segnali “buoni” che pure esistono, e che ogni tanto riescono ad affiorare, e contribuire a metterli in evidenza per alimentare la speranza, una virtù indispensabile per continuare ad accettare la fatica di vivere.

In questi giorni mi ha fatto piacere vedere come i giovani campioni del tennis, Sinner, Musetti, Alcaraz, Draper, Zverev, abbiano inteso dare di sé un’immagine positiva, ribadendo l’importanza dell’amicizia, della correttezza, della lealtà, della gentilezza. Ho visto anche molti personaggi dello spettacolo anche di grande fama, mettersi al servizio di iniziative umanitarie e solidali: forse essere maleducati e trasgressivi a tutti i costi non è più così di moda.

Questo mi sembra un fatto che può incoraggiare i nostri ragazzi a ignorare i modelli e i messaggi negativi che possono frastrnarli e confonderli.

Se l’essere persone autenticamente perbene (e non moralisticamente ipocrite) diventa un “trend” vincente, si può ancora sperare…

Letture: il senso di una fine (J. Barnes)

Tony è ormai in pensione e ha una vita tranquilla da uomo divorziato da tanti anni e quindi solo. Si dedica ai suoi hobby e al volontariato e ogni tanto telefona alla figlia lontana e incontra l’ex-moglie per un caffè, da buoni amici.

Un giorno gli arriva una lettera che gli comunica di aver ereditato una piccola somma di danaro e il diario di Adrian, un vecchio compagno di scuola , da una donna incontrata un giorno di 40 anni prima.

La cosa gli sembra molto strana e per cercare di capire va col pensiero a quegli anni giovanili. Adrian era il più intelligente del gruppo e si era presto suicidato; la sua morte aveva sempre avuto un alone di eroicità perché, secondo i suoi amici (e anche secondo Tony) aveva avuto il coraggio e la freddezza di rifiutare quel dono della vita che lui diceva di non aver chiesto.

Il denaro gli arriva, ma non riesce ad avere il diario dell’amico, di cui si è impossessata Veronica, la sua ragazza di un tempo che, dopo la fine brusca della loro relazione, si era fidanzata con Adrian. Per ottenere quel diario, cerca in ogni modo di ritrovare Veronica, che alla fine accetta di incontrarlo: subito il ricordo spiacevole della fine della loro storia gliela fa sembrare fredda e distante, poi Tony quasi si illude di poter ravvivare quell’antica relazione, ma non sarà così. Nel corso delle sue indagini viene a sapere tante verità che non aveva mai compreso.

In questo romanzo c’è la fine di tante storie: la fine della relazione con Veronica, la fine della vita di Adrian (che poi non era stata così eroica, ma dettata piuttosto da codardia di fronte alle proprie responsabilità) , la fine di un matrimonio, la fine di un modo di “leggere” i propri vissuti da parte di Tony e forse anche la rivalutazione della propria mediocrità nella quale però il protagonista trova il coraggio di riconoscere i propri errori e di chiedere perdono, per poi tornare alla sua vita di prima, ma con la consapevolezza che “la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato”.

Da questo romanzo è stato tratto un film e il finale a sorpresa è la classica ciliegina sulla torta.

Supereroi.

Supereroi così bisogna definire tutti gli atleti che partecipano alle Paralimpiadi.

Abbiamo visto gesti e performance da lasciare a bocca aperta, compiuti da giovani con i quali la vita è stata avara, a volte molto avara.

Li avremmo compresi se si fossero chiusi nel rancore verso la loro sorte e nel rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato, ma invece loro non si sono arresi e hanno cercato di potenziare al massimo quelle parti del corpo di cui potevano ancora disporre e si sono impegnati nelle più varie discipline sportive.

Nel guardarli ci si sente pervadere da diversi sentimenti: subito, al primo sguardo, ti viene da pensare alla loro disabilità con dispiacere, poi li vedi con lo sguardo deciso prepararsi alla propria gara e allora li ammiri per il loro impegno e per la loro determinazione… Al termine della gara esplode la gioia dei vincitori, ma anche di quelli per i quali già l’aver partecipato è un successo, un momento che riempie la loro vita e riempirà i loro ricordi per sempre. Allora non vedi più la loro disabilità, vedi solo dei giovani felici e godi della loro felicità…e ti commuovi.

…Poi ti viene da pensare a quante volte noi, che siamo più fortunati, sciupiamo tempo ed energie in lagnanze meschine per motivi che ora appaiono futili e irrilevanti e ci diciamo che i supereroi esistono davvero e sono quei ragazzi delle Paralimpiadi.

Poesia: L’orto (G. Pascoli)

Leggiamo insieme: L’orto di Giovanni Pascoli

E come l’amo il mio cantuccio d’orto,
col suo radicchio che convien ch’io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:

o primavera! con quel verde d’agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;

con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;

coi riccioluti cavoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch’hanno un odore… come il suono

dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d’aprile; ed alto, co’ suoi capi
rotondi, d’oro, il grande girasole

ch’è sempre pieno del ronzìo dell’api!

Ho trovato questa poesia del Pascoli, che non conoscevo. Può sembrare strano dedicare una poesia all’orto, ma per il Pascoli è un’ altra occasione per celebrare le cose semplici e buone della vita.

Anche io amo fare l’orto: è solo una piccola striscia ricavata dal praticello retrostante la casa, ma , anche se ormai mi costa un po’ di fatica, ogni anno continuo a zapparlo, a seminare, a trapiantare…

Non è certo una fonte di risparmio per me, perchè il raccolto è tanto esiguo che non copre le spese, ma è un motivo di grande soddisfazione poter assaporare un pomodoro appena raccolto, che pare non aver legami di parentela con quelli più grossi e luccicanti che trovo al supermercato. E cosa dire del profumo veramente paradisiaco del basilico col quale si può insaporire un sugo o una pietanza? Il rosmarino e la salvia poi si sono trovati molto bene nel mio fazzoletto di terra e lo si può ben capire guardando i loro cespugli sempre rigogliosi e odorosi, a cui attingo spesso e volentieri .

Da qualche anno poi pianto sempre dei cetrioli, che però crescono bene solo in un punto più riparato dal sole: maturano in estate, proprio quando vengono da me i miei nipoti che li gradiscono, così teneri, croccanti e freschi, nell’insalata.

Credo che anche le api, le vespe e le farfalle siano contente di venire nel mio orto, perché si affollano golose attorno ai fiori dei vari ortaggi in tutta la bella stagione

Letture: L’amore molesto.

Ho trovato qui, in casa di mia filgia, il primo romanzo scritto da Elena Ferrante intitolato “L’amore molesto”

Racconta di Delia, una ragazza non più giovanissima, che torna a Napoli, sua città natale, in occasione del funerale della madre Amalia.

Delia non è convinta della versione ufficiale che definisce suicidio la causa della morte della madre e comincia ad indagare sui fatti e sulle persone che hanno segnato i suoi ultimi giorni di vita . E’ così che in un alternarsi di racconto (quasi una cronaca) delle sue indagini e flash-back ricorrenti che Delia rivive e comprende il proprio passato e quello della sua famiglia.

Già in questo primo romanzo si sente che c’è la stoffa di una grande narratrice che riesce a descrivere situazioni e personaggi con estrema efficacia, anche abbinando tra loro aggettivi e sostantivi che, forse, a nessuno verrebbe in mente di accostare: “vuotezza astinente” riferito a una gettoniera di ascensore, per esempio.

E’ poi efficacissima e spietata nel delineare le figure maschili che appaiono nelle vicende narrate: il padre, pittore da strapazzo, è violento e gelosissimo della sua bella moglie, la quale diventa spesso il capro espiatorio e la vittima della sua meschinità e delle sue frustrazioni; l’amico della madre (e non l’amante) Caserta non esita a mettere in pericolo Amalia facendone ingelosire il marito senza che ve ne sia motivo e alla fine risulta anche subdolo; il figlio di Caserta, Antonio, non esita a cacciare di casa il padre ormai un po’ rintronato, il padre di Caserta poi alla fine si scopre essere stato il pedofilo che ha abusato di Delia, episodio che ha molto condizionato l’ esistenza dell’intera famiglia di Delia.

Fa da sfondo alla vicenda la città di Napoli con i suoi suoni, i suoi odori, le sue luci, le ombre il linguaggio colorito e il vociare chiassoso dei ragazzi per le strade.

Il titolo del romanzo è da attribuire, credo, a quella mescolanza particolare di amore/odio/paura dell’abbandono/gelosia, che caratterizza l’amore infantile per la madre, ma può riferirsi anche a quelle molestie subite dalla protagonista e mai confessate nemmeno a se stessa.

Film: Il ragazzo che catturò il vento.

Ho rivisto questo film, che andrebbe proiettato nelle nostre scuole. E’ ambientato nel Malawi, in una zona devastata da piogge torrenziali seguite da periodi infiniti di siccità. William è un ragazzo proveniente da una famiglia di agricoltori. I suoi genitori nel loro progetto di vita hanno dato la priorità all’educazione dei figli e alla loro istruzione e per questo William può andare alla scuola superiore tenuta da alcuni insegnanti del luogo, ma ben presto ne viene allontanato perché la famiglia non può pagare la retta. Il ragazzo però non si scoraggia e riesce a studiare ugualmente frequentando con qualche sotterfugio la biblioteca della scuola. Lui è particolarmente interessato alla produzione di elettricità, per poter costruire una pompa che possa portare acqua ai campi in caso di siccità. Ha già fatto molta pratica aggiustando radio e altre apparecchiature elettriche dei conoscenti, recuperando parti di ricambio in una discarica. Dai suoi studi arriva a capire che il suo progetto è realizzabile solo se può utilizzare parti della bicicletta di suo padre, l’unico bene posseduto dal genitore, che perciò rifiuta ripetutamente e sempre più decisamente. Ma intanto la carestia si fa più grave: il cibo è razionato e la gente si contende con le unghie e con i denti gli scarsi aiuti inviati da un governo corrotto.

Quando la disperazione arriva al culmine, interviene la madre di William che convince il marito a sacrificare la sua bicicletta per tentare di salvare il villaggio intero. Il padre si convince e tutta la piccola comunità si mette all’opera eseguendo le direttive di William e alla fine l’acqua sgorga dal pozzo e può essere incanalata verso i campi.

Questo film, ribadisco, dovrebbe davvero essere proiettato nelle scuole perchè fa capire l’importanza dell’istruzione, illustra bene la situazione di miseria di certe popolazioni in balia degli eventi atmosferici e di governanti violenti e corrotti ed evidenzia il valore del bene comune da perseguire anche a costo di sacrifici e di sofferenze. Ne consiglio la visione.