Ri-Letture: Il giorno della civetta.

Costretta come sono a una forzata inattività, è un’ impresa trovare come riempire le giornate  e una delle soluzioni migliori resta sempre la lettura.

E’ così che ho riletto  “Il giorno della civetta” di Sciascia , uno dei  libri in italiano disponibili qui a casa di mia figlia.

Credo che Sciascia sia ancora insuperato nel descrivere la mentalità mafiosa, sia dei boss, che dei loro “manovali”. Li accomuna lo scetticismo nella forza della legge e nella giustizia: per i capi la legge è qualcosa da eludere, da piegare ai propri fini, per gli ultimi adepti è qualcosa che permette a chi la rappresenta di schiacciarti o meno, a seconda del suo interesse del momento se non del suo capriccio.

Altro tema ben sviscerato è quello di come l’esistenza della mafia venga negata soprattutto da chi ne trae profitto, soprattutto da chi ad alto livello trama nell’ombra, e tira i fili delle sue marionette.

Ma la scena che tutti ricordiamo e che viene più spesso citata è quella in cui il vecchio  boss locale si trova davanti al capitano Bellodi, ex partigiano e custode onesto e fedele della legge. Questi ha sgretolato il muro di ipocrisia e falso perbenismo del boss, andando a indagare sul suo immenso patrimonio, non derivante certamente dal reddito delle sue attività ufficiali.

Il boss è alle strette, ma sa di avere le spalle coperte da alte complicità, per questo ammira  il coraggio del capitano, che sfida consapevolmente le trame di un potere oscuro e minaccioso, e pronuncia le parole più famose del romanzo:

«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.»

Ciò che resta di questo libro è un senso di speranza: il capitano nonostante sia stato sconfitto e il suo lavoro quasi ridicolizzato, sa che tornerà in Sicilia per continuare ad affermare la supremazia della Legge e dello Stato. Il capitano Bellodi è un po’ la prefigurazione di tanti eroici servitori dello Stato che hanno sacrificato e sacrificano anche oggi la loro vita al senso del dovere al perseguimento della giustizia.