Ero ancora alle superiori quando un giorno il nostro insegnante di religione, il mai dimenticato don Mussini, ci chiese quali fossero le nostre letture.
Allora negli ambienti cattolici erano molto in voga gli scrittori francesi e io risposi che preferivo leggere Mauriac, Bernanos, Maritain, Cesbron …. al che il sacerdote mi disse che c’era il rischio di lasciarsi trascinare nell’angoscia, ma forse allora io non capivo fino a fondo il messaggio di quegli scrittori e non mi lasciavo angosciare… Proprio qualche giorno fa mi è tornato tra le mani “Cani perduti senza collare” di Cesbron.
E’ in libreria da più di mezzo secolo, per di più è di un’edizione economica e le sue pagine di carta a buon mercato sono molto ingiallite. Ne ricordavo vagamente il contenuto e mi è venuta la voglia di rileggerlo.
E’ ambientato in un centro di rieducazione per minor abbandonati o appartenenti a famiglie in grave difficoltà e in questo centro, non molto lontano da Parigi, si cerca di applicare un metodo improntato sulla libertà e sulla fiducia: niente cancelli chiusi, niente sistemi coercitivi simili a quelli usati nelle carceri. Lo scrittore racconta in particolare le vicende di un bambino, Roberto Alano, che non ha mai conosciuto nè il padre, nè la madre, ma è convinto che il giornalino che gli arriva ogni mese sia il loro modo per dirgli che gli vogliono bene; in realtà è un’educatrice che glielo fa spedire. Nel centro il ragazzino si affeziona alla “Capitana Francesca”, una una giovane donna che ama molto i ragazzi che segue e che pertanto ritiene inconciliabile questo suo lavoro con la sua futura vita di moglie e madre di figli suoi. Francesca lascia perciò il centro e a quel punto Roberto il protagonista si lascia tentare da alcuni ragazzi più grandi e fugge con loro per cercare i suoi genitori, con l’aiuto del solo indizio che ha: le etichette incollate sui giornalini che gli arrivano ogni mese. Naturalmente la sua ricerca fallusce e viebe salvato dal riformatorio solo dall’intervento del giudice che conosce la sua storia e sa che Roberto ha solo bisogno di qualcuno da amare. Al suo ritorno al centro gli verrà affidata la cura del figlioletto del capo del centro stesso e il ragazzo allora capisce che quello in cui si trova è il posto migliore in cui crescere.
A fare da contrappunto alla storia di Roberto c’è quella di Gerardo, il figlio del giudice che ha competenza sul centro rieducativo e sui suoi ospiti. E’ un ragazzo orfano di madre e la dedizione del padre al suo lavoro fa di lui un ragazzo molto solo. Suo padre vive la sua professione con l’atteggiamento del cristiano che sente di dover anzitutto lenire le sofferenze degli ultimi, di quei ragazzi soli e disperati proprio come i cani che si perdono e non hanno la medaglietta al collo che identifichi il loro padrone. Gerardo però sa di avere l’amore del padre, anche se deve stare solo in casa o cucinare da sè i suoi pasti e soprattutto ha qualcuno da amare e questo gli fa accettare le lunghe attese e le lunghe assenze.
Forse ora capisco ciò che don Mussini voleva dire: in questo libro si presenta un cristianesimo che richiede un’adesione totale, il che è anche giusto, ma il rischio è poi quello di convincersi di non aver mai fatto abbastanza, di scoraggiarsi di fronte ai fallimenti e di perdere il senso della speranza e il senso di affidamento nella Provvidenza. Un cristiano deve anche accettare i suoi limiti così come insegna S. Paolo “se devo vantarmi, mi vanterò della mia debolezza” .