E’ ambientato a Oxford, tra i vecchi palazzi della locale famosa Università.
Il professor Stevens vive da sempre tra quelle mura, inserito perfettamente in una routine priva di imprevisti. E’ un affermato scrittore e conferenziere, che va affermando quanto il dolore sia importante per forgiare le anime. E’ profondamente religioso e vive con suo fratello che ne condivide la quotidianità.
Un giorno viene dall’America una poetessa che lo vuole conoscere, ma tra di loro non scocca la scintilla della simpatia. Dopo qualche tempo la donna torna in Inghilterra, col figlioletto (è divorziata da poco) e chiede al prof. Stevens di sposarla solo civilmente per poter avere il permesso di soggiorno, ma nulla cambierà tra di loro. Il professore accetta, ma resta chiuso nella sua vita senza emozioni, forse più per paura che per scelta.
Dopo qualche tempo lei cade malata: la diagnosi è terribile, il cancro non le lascia molto tempo da vivere. A quel punto il professore si scuote, sente di non voler perdere quella donna che lo ama e la assiste con grande amore, dopo averla sposata con rito religioso.
A quel punto però la sua fede vacilla: il dolore non gli pare più così giustificato. I due cercano di vivere al meglio il poco tempo a disposizione concedendosi momenti di grande unione spirituale. Ma il destino della donna non perdona e alla sua morte Stevens si prende cura del figlio di lei, accettando il dolore della separazione che è indivisibile dall’amore.
Il personaggio del professore è interpretato da A. Hopkins alla sua maniera; come “In quel che resta del giorno” pare prima inattaccabile nella sua fredda vita fatta di abitudini consolidatissime, poi è di un’intensità commovente (io ho versato qualche lacrimuccia) nell’esprimere la tenerezza infinita per la donna che ha imparato ad amare.