Il 2 giugno e le donne.

Il 2 giugno di 72 anni fa, l’Italia sceglieva di dare una svolta storica alla sua storia, votando a favore dell’istituzione della Repubblica. In quell’occasione votarono anche le donne… ecco come il nostro Presidente Mattarella ha ricordato quell’evento in un discoso di due anni fa, riportato in un articolo di Repubblica.it

“Le elettrici, sin dalle amministrative del ’46 e dal referendum del 2 giugno, parteciparono in massa al voto, smentendo i timori che affioravano nei gruppi dirigenti dei partiti di massa, e conferendo alla nostra democrazia una forza che e’ stata poi decisiva per superare momenti difficili e minacce oscure”. La Repubblica e’ donna insomma, fin dal primo istante.(AGI)

Ma come si era arrivati a riconoscere questo diritto alle donne? Leggo dallo stesso articolo linkato sopra…

All’inizio del ‘900 il movimento per il voto alle donne aveva avuto un sussulto con la comparsa sulla scena di personaggi come Anna Mozzoni e Maria Montessori e nel 1919, dopo la Grande Guerra, la Camera voto’ a larga maggioranza la legge sul diritto di voto alle donne. Ma la legge si areno’ in Senato……

  (Nello stesso periodo) ….alcune esponenti del mondo cattolico si espressero a favore del suffragio amministrativo, poi giunse il si’ di don Luigi Sturzo nel 1917, quindi nel 1945 quello di Pio XII: perche’ si difendesse la famiglia e la stabilita’. A non entusiasmarsi rispetto alla questione del suffragio femminile furono ... gli azionisti, i liberali e i repubblicani. I partiti di ispirazione liberale, in parte, sottolinearono lo scarso livello culturale delle donne e i limiti della loro coscienza politica

A Cavola.

diana catellaniEra l’ottobre del 1969.
Avevo alle spalle solo pochi giorni di supplenza, quando, avendo vinto il concorso magistrale in provincia di Reggio Emilia, fui mandata a Cavola di Toano.
Mio fratello Vincenzo mi aveva prestato i soldi per comprarmi la 500 per poter raggiungere la sede che mi era stata assegnata. Cavola era allora un piccolissimo borgo di montagna, fatto di poche case strette intorno a una chiesetta, a un ufficio postale, a una piccola scuola, a una macelleria aperta solo qualche ora alla settimana e a un negozio che vendeva un po’ di tutto.

Proprio sopra a quel negozio c’era un alloggio, che veniva affittato ogni anno alle insegnanti che venivano mandate in quel paesello sperduto sull’Appennino Reggiano ed è lì che trovai la mia sistemazione insieme a un’altra insegnante di nuova nomina, proveniente dalla città.
C’erano in tutto quattro classi, dato che la prima e la seconda erano unite in una pluriclasse ed eravamo pertanto in quattro insegnanti. La più anziana, che abitava in una frazione vicina, era una profuga giuliana e si chiamava Marcella: era una signora molto dolce, che mi confortava sempre quando mi disperavo per la mia inesperienza e mi dava sempre ottimi consigli. C’era poi Giuseppe, che aveva qualche anno di insegnamento alle spalle e che aveva molta voglia di sperimentare; c’era Marisa, che veniva da Reggio e che, come ho detto, era fresca di nomina come me.
La mia classe era una terza ed era composta, se ben ricordo, da una decina di bambini. Erano tutti molto rispettosi e ben educati; alcuni di loro provenivano da famiglie poverissime, abitanti in casolari sperduti nei dintorni della frazione.
Non avendo avuto precedenti di esperienze di insegnamento, se non le poche supplenze e le lezioni private, mi spaventava l’idea di non essere all’altezza del mio compito, di non poter offrire a quei bambini tutto quello a cui avevano diritto; per questo a volte stavo sveglia di notte a pensare come presentare nel modo migliore il sistema metrico decimale o le frazioni, ignorando che i bambini hanno molto spesso risorse sufficienti a supplire alle carenze dei docenti…
Ricorrevo volentieri ai consigli di Marcella e di Giuseppe e mi confrontavo anche con Marisa che condivideva le mie ansie.
Un giorno, Giuseppe fece una proposta che mi trovò subito d’accordo: perché non tentavamo di valorizzare al meglio le nostre capacità per offrire più stimoli ai nostri alunni, che vivevano in un ambiente che non ne offriva molti? Si trattava di creare dei laboratori con diverse attività e di formare dei gruppi di interclasse (cioè formati da bambini delle diverse classi) che avrebbero ruotato sui diversi laboratori di disegno, lavori manuali, canto e non ricordo cos’altro…
Era un’esperienza nuova e stimolante per me e solo qualche anno più tardi, quando si cominciò a parlare di classi aperte, mi accorsi che eravamo stati dei pionieri.
Ricordo sempre il giorno in cui arrivò l’ispettore. Stavo facendo una lezione di aritmetica ed evidentemente l’ispettore era stato un po’ a origliare alla porta della mia classe, perché entrò dicendo:- No, no, no! Così non va…- Scuotendo l’indice e facendomi diventare rossa come un peperone. Poi però guardò i banchi dei bambini e vide che su ognuno c’era un sussidio didattico che rendeva la mia lezione non astratta, ma basata su cose tangibili e allora cambiò subito atteggiamento.
Probabilmente, oltre ad origliare alla porta, prima di entrare in classe aveva anche ripassato qualche appunto preso l’anno precedente, perché, con mia grande sorpresa, cominciò a parlare coi bambini dimostrando di riconoscerli, di ricordare i loro nomi e anche le loro problematiche familiari o di salute….così ad esempio chiese a un bimbo se aveva rifatto la visita oculistica, a un altro chiese notizie della madre malata e a un altro ancora se avesse cambiato casa… Dimostrava una grande umanità e un grande rispetto per ognuno di quegli scolaretti, che sembravano essere molto più a loro agio di me, parlando con quello che forse consideravano come un nonno buono e gentile.
Di quell’anno ricordo ancora i viaggi tra il mio paese e Cavola. A un certo punto la strada non era nemmeno asfaltata, né tantomeno fornita di guard-rail. La mia 500 era sballottata tra le numerose buche come una diligenza sulle strade del Far-West e una sera di nebbia mi sono accorta ad un certo punto che avevo la ruota di sinistra giusto sull’orlo di un burrone: davanti al fanale era comparsa la sterpaglia che cresceva sul ciglio della strada!!!
Sono passati quasi cinquant’anni da allora ed io non sono più tornata a Cavola, ma, dalle foto che trovo su internet, posso capire che quel borgo sperduto tra i monti non è più come è rimasto impresso nella mia mente.

Non ci sono più gli esami di una volta.

Quando ero piccola io , l’ obbligo scolastico arrivava fino alla quinta elementare. Chi intendeva proseguire gli studi aveva due possibilità: affrontare l’ esame di ammissione alla scuola media  o iscriversi alle scuole di avviamento professionale.

E’ per questo  che dopo Natale, quell’ anno, frequentai  nelle ore pomeridiane un corso di preparazione all’ esame di ammissione. L’ insegnante era una signorina già avanti negli anni, che aveva un handicap vistoso (le mancavano gli avambracci e le sue piccole mani, con sole quattro dita, si inserivano nell’ articolazione  del gomito). Era molto severa inizialmente e ricordo che ne avevo anche un po’ paura, poi invece si rivelò un’ insegnante dolce e capace.

Le lezioni si tenevano in un locale della sua grande casa, che aveva anche un vasto giardino, in cui scendevamo a fare merenda.. Eravamo forse 7 o 8 tra bambini e bambine e lo studio ci impegnava parecchio.

Appena finite le lezioni del mattino, correvo a casa per mangiare e poi subito di corsa (o in bicicletta) a quel doposcuola che doveva prepararci all’ esame di giugno, da affrontare in una scuola media dei paesi vicini. Ritornavo a casa verso sera con una gran voglia di sgranchirmi le gambe e ricordo che mi mettevo a correre  nei dintorni all’ impazzata per qualche minuto.: come mi sentivo leggera!

Alla fine dell’ anno sostenemmo con successo l’ esame di ammissione e fummo premiati durante una festa tenutasi nel teatro del paese: il direttore didattico e la maestra di classe consegnarono a me e ad altri due compagni l’ attestato del 1° premio e il libro “Il giornalino di Gian Burrasca” che lessi e rilessi poi tante volte negli anni seguenti, sempre con grande divertimento.


Il veglione.

ballo-anni-50Eravamo in tanti allora (primi anni 50) a vivere in dignitosa povertà. Mi ricordo le merende a base di mezzo formaggino col pane o a base di pane e burro e zucchero, o le cene in cui il piatto unico era l’ anguria, ma non si soffriva la fame. Probabilmente in casa d’ altri non era così e a scuola, alcuni bambini usufruivano dell’ assistenza del Patronato Scolastico che forniva loro una tazza di latte al momento della ricreazione; in altre occasioni  quei bambini potevano avere gratuitamente i quaderni e il materiale scolastico in genere e, in alcuni casi, anche capi di vestiario o scarpe.

Per finanziare queste attività, ogni anno in autunno si teneva il gran ballo del Patronato Scolastico: la festa più attesa dalle ragazze, per sfoggiare qualche abito elegante, e dai ragazzi per mettersi in mostra e pavoneggiarsi davanti alle loro coetanee, sempre rigorosamente accompagnate dalle mamme, che svolgevano bene il loro ruolo di CHAPERON. Partecipavano anche tutti gli insegnanti del paese, che si occupavano di far in modo che la serata avesse un successo di partecipazione tale da consentire una sufficiente raccolta di fondi.

Ricordo che il Veglione metteva in fermento tutto il paese. Io ero troppo piccola allora e non ho mai partecipato, ma ricordo che in casa se ne parlava . Il Veglione rimaneva l’ argomento preferito  di conversazione e di pettegolezzo anche nei giorni successivi all’evento per raccontare e commentare ciò che era successo,  incluse  le eventuali belle o brutte figure dei partecipanti

Per i bambini meno fortunati non doveva essere molto piacevole essere oggetto di questo tipo di beneficienza: il tutto sapeva molto di elemosina e forse per questo si passò poi ad altre forme di aiuto.

La cavolaia.

Oggi nel mio orto svolazzava leggera una cavolaia, una, si direbbe, comunissima cavolaia.. Dovrebbe essere un fatto banale , ma invece direi che  l’ evento merita di essere menzionato.

Da molti anni infatti capita raramente di vedere delle farfalle, uccise forse dall’ inquinamento dell’ ambiente e dagli antiparassitari.

Non era così quando, da piccola andavo per i campi insieme ai bambini della contrada. Le si vedeva volare sui campi di erba da foraggio, sui campi di grano chiazzati qua e là dal rosso dei papaveri e le loro ali variopinte davano la sensazione di vedere dei fiori volanti.Ce n’ erano di tante varietà:, ognuna caratterizzata dal particolare colore delle ali  Quando si posavano su quaklche corolla e restavano lì ferme, facendo solo palpitare leggermente le loro ali,    c’ era sempre qualcuno tra noi che provava a catturarle con le mani nude; se riusciva nel suo intento , poi restava sulle sue dita una specie di polvere , che aveva ai nostri occhi un  sapore di magia .

p.s.  Mi sta venendo in mente “La vispa Teresa”…. :-)))

Un ricordo di scuola.

La relazione della psicologa dell’ istituto che lo aveva curato, diceva che era  un bambino che risentiva di traumi cerebrali  causati da un incidente d’ auto, subito quando aveva quattro anni. Le terapie erano riuscite a riportarlo a camminare, anche se doveva ancora avvalersi di tutori, ma la formulazione della parola era rimasta lenta; le capacità intellettive erano valutate nella norma (anche se ai limiti inferiori).
All’ impatto con la scuola (prima elementare) il bambino mostrò tanta voglia di relazionarsi con i compagni e con la maestra, ma aveva dei terribili accessi di aggressività e faceva molta fatica a seguire le attività. La motivazione principale dell’ inserimento era stata la socializzazione e durante quel primo anno imparò a fare il bravo scolaro, ma non imparò nè a leggere nè a scrivere (perchè non ero abbastanza severa, diceva la psicologa ad ogni incontro) e quindi ero stata invitata a bocciarlo.
A me sembrava una vera crudeltà, visto che aveva fatto progressi da gigante nei rapporti coi compagni e nell’ autocontrollo e non raccolsi l’ invito. Durante l’ estate gli preparai una specie di sillabario con il lavoro già predisposto in modo da riuscire a seguirlo mentre la classe faceva attività diverse. E il secondo anno imparò a leggere e a scrivere semplici frasi.
Chi lo seguiva però non era soddisfatto perchè poteva fare di più…ma non era vero : il poverino riusciva a imparare certe cose al mattino , ma non riusciva a ricordare il giorno dopo ciò che era stato fatto , soprattutto quando si trattava di tecniche legate alla matematica.Dopo aver sperimentato tutte le strategie possibili, capii che le lesioni dovevano aver colpito la parte di memoria preposta a quelle attività e cominciai a scrivere ogni giorno sul suo diario: studia la tabellina del 2. Andai avanti per un mese e più, fini a quando arrivò il giorno della riunione con gli specialisti (la psicologa era cambiata).
L’ incontro si svolse secondo il solito rituale  e stavamo per concludere quando l’ assistente del bambino mi disse un po’ imbarazzata:- Signora quando lei scrive sul diario di studiare le tabelline, posso fargli fare qualcos’altro? Lui non è in grado di ricordarle, non c’ è niente da fare……-

A questo punto mi illuminai tutta e le dissi: – Cara signorina, lei da oggi in poi non troverà più quella scritta sul diario, perchè so benisssimo che non può impararle. Io volevo solo che fosse lei a dirlo, perchè se lo dico io mi sento dire che devo essere più severa…..
I presenti si scambiarono sguardi molto imbarazzati, mentre sull’ assemblea scendeva un gelo da brividi….. e da quel giorno nessuno mi disse più di essere più severa… anzi non mi invitarono nemmeno più alle  riunioni….

Ambulanti

La “macchina del tempo” mi ha proiettato alla metà degli anni 50 o giù di lì….

Non c’ erano frigoriferi e la gente comprava giorno per giorno quel poco che non poteva produrre da sé e, per venire incontro alle necessità di quelli che abitavano lontano dalla piazza del paese, dove erano concentrati i negozi, certi commercianti facevano servizio a domicilio.

bicicletta-del-lattaioCosì al mattino arrivava il fornaio a portare il pane ancora caldo, mentre la sera arrivava la lattaia coi suoi bidoni appesi alla bici e con i misurini da un litro, mezzo litro e un decilitro. Portava con sé anche le notizie del paese, che elargiva con generosità, mentre versava il prezioso alimento.  Le massaie si affacciavano con la loro pentola sull’ uscio di casa, ascoltavano curiose le chiacchiere della lattaia  e subito dopo  mettevano  il latte a bollire per impedirgli  di inacidire durante la notte .

Credo che invece passasse una volta sola a settimana il pizzicagnolo, detto Sardèla per il fatto che tra salumi, formaggi, tonno in scatola.. vendeva anche le sardine sotto sale, il cui odore sovrastava quello di tutti gli altri alimenti. Costui era un tipo asciutto, coi baffetti brizzolati e i capelli ricci lucenti di brillantina. A volte era accompagnato dalla moglie, una signora sorridente che mi colpiva per i suoi capelli biondi. Tutte le donne bionde allora mi sembravano molto belle… Anche il pescatore passava solo di venerdì …. non so da dove venisse e come potesse mantenere fresca la sua merce…

Molto più raramente passavano invece i “negozi viaggianti” dei venditori di stoffe.  Quello che ricordo meglio era piuttosto basso di statura, ma  di corporatura robusta; aveva il viso tondo e colorito e il mento quasi spaccato in due da una fossetta profondissima. Aveva una gran facilità di parola e sapeva ben magnificare la sua merce per convincere le donne ad acquistarla. Ricordo come stropicciava o lasciava  palpare la stoffa che stava vendendo per evidenziarne la qualità.   Io però rimanevo più affascinata dal suo furgone che nei miei ricordi mi appare molto simile, nella parte anteriore, a una “balilla” . Era raro allora vedere delle automobili e quel grosso mezzo rumoroso e fumante, che appariva e scompariva accompagnato da nuvole di polvere, colpiva la mia fantasia.

molaforbici300C’ era anche lo stagnaro che passava ogni tanto per riparare le pentole e c’era l’ arrotino che  affilava i coltelli e le forbici;  c’ era  chi passava a raccogliere i rottami di ferro o gli stracci o addirittura gli ossi dei maiali appena macellati perchè allora la gente poteva permettersi poche cose, ma ne sapeva apprezzare il valore e aveva ben radicato il senso del riutilizzo di ogni minima risorsa.

Mia cugina Lia ha commentato:

 Ciao, Diana. Anche per le strade del paese passavano quasi tutti questi ambulanti con le loro grida e le loro cantilene per richiamare le donne che dovevano fare la spesa o avevano bisogno di servizi, come potevano offrire l’arrotino ( a ghè al mulèta..) o lo straccivendolo (… dòne, a ghè al strasèr.. A ghiv di stras, di òs, dal fèr, di cavíi…=capelli), o l’ombrellaio…Quelle loro cantilene, che a volte mi svegliavano la mattina presto (la pescivendola, la venditrice di mele…) mi risuonano ancora in testa. Tempi duri ma indimenticabili.

Festa del lavoro: perchè?

Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo.
Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo.

“Le persone uccise a Portella della Ginestra si chiamavano: Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna, Francesco Vicari, Vito Allotta, Serafino Lascari, Filippo Di Salvo, Giuseppe Di Maggio, Castrense Intravaia, Giovanni Grifò, Vincenza La Fata. Tre di loro avevano meno di 13 anni.”

Le righe qui sopra sono state copia-incollate da questo articolo che potrete leggere su “IL POST” . Vi troverete la spiegazione del perchè la Festa del lavoro si celebra proprio il 1° maggio (per ricordare i lavoratori morti in piazza o per condanna negli USA, per aver chiesto il rispetto dei loro diritti) e vi troverete anche il ricordo di ciò che accadde a Portella della Ginestra 71 anni fa.

Che questa festa e il rispetto di tutti coloro che sono morti per il lavoro e sul lavoro possano ricordare sempre ai nostri governanti che l’attuazione del primo diritto citato nella nostra  Costituziona deve essere sempre il loro primo imprescindibile obiettivo. Solo il lavoro onesto e retribuito adeguatamente garantisce ad ognuno di  poter vivere con dignità, da donne e uomini liberi.