Negli ultimi anni della sua vita, mia madre mostrava di aver assunto a poco a poco una certa “confidenza” con l’ idea della morte.
Quando stavo qualche giorno da lei (non abitavamo vicino), mi chiedeva sempre di accompagnarla al cimitero. Preparava un mazzo di fiori che raccoglieva nel suo giardino e saliva in macchina.
Il “giro” cominciava dalla tomba di papà, dove si fermava a lungo mormorando delle preghiere.
Poi andava a rendere omaggio ai parenti e ai conoscenti e davanti alle tombe di ognuno rivolgeva una frase di saluto. Quando passava davanti alla tomba di suo fratello, la sentivo dire a voce abbastanza alta: – Ciao Virginio, ti ricordi quanto abbiamo ballato e quanto abbiamo lavorato insieme?-. Passando accanto alla tomba di una vicina : – Vedrai che faremo presto delle altre belle chiacchierate!-
Era come se l’ idea di morire non la spaventasse più, ma fosse entrata naturalmente nei suoi pensieri e nella sua vita; quando poi l’ ho vista sul letto di morte ho avuto quasi una conferma a questa mia impressione: il suo volto era disteso e sereno come non lo era stato più da molto tempo per le lunghe sofferenze e sembrava dire:- Finalmente!
Spero, nel momento supremo, di poterlo affrontare anch’io come lei, con la serena consapevolezza di aver interpretato al meglio delle mie possibilita` la mia parte, pur con tutti i limiti che la condizione umana impone ad ognuno.
Una pioggia di fiori.
La mia amica Graziella, che ringrazio vivamente, ha inviato questo suo “fiorito” ricordo d’ infanzia:
Sulle sponde del Lago di Lecco, c’era Villa Rosa con un parco bellissimo, dove c’ erano diversi tipi di alberi, tra cui anche delle vecchie piante di camelie molto alte.
Durante la fioritura, mi piaceva moltissimo arrampicarmi in mezzo a quei fiori rosa, bianchi, screziati: era uno spettacolo bellissimo!
Quando tutte le camelie erano fiorite, bastava scrollare un po’ i rami e tutti i petali cadevano formando una bellissima pioggia rosa e bianca……Veri momenti di felicità!
Posso solo immaginare l ‘ incanto e la meraviglia di quei momenti! Fortunata tu, Graziella, che li hai vissuti.
Sul sagrato di S. Eufemia.
Stamattina si festeggiava S. Eufemia e l’inizio dell’ anno pastorale, per questo alle 10 si è celebrata una messa sul piazzale antistante l’ antica chiesetta plebana dedicata alla santa.
Mentre attendevo l’ inizio del rito, mi son ritrovata a pensare da quanti secoli questa chiesetta è in questa zona il punto di incontro per chi vuole testimoniare la propria religiosità. Gli storici fanno risalire la costruzione della chiesa attorno al X – XI secolo, ma è accertato che sia stata costruita su un tempio preesistente di epoca paleocristiana e ancor prima adibito a culto pagano.
Quanta gente nel corso dei secoli si è inginocchiata su queste pietre per ringraziare e supplicare,! Quanta gente avrà raccontato all’ invisibile Interlocutore le sue fatiche, le sue sofferenze , le sue gioie mormorando a fior di labbra una preghiera! E mi immaginavo questo continuo afflusso di gente vestita in modi diversi, secondo le mode del tempo, ma con la stessa disposizione d’ animo che ha portato anche questa mattina tante persone a gremire la piazzetta.
C’ è chi sostiene che la religione serva all’ uomo per esorcizzare la paura della morte; penso invece che se non credi in una vita ultraterrena la morte non può farti paura, perchè segna solo il ritorno al nulla. Credo che la religiosità sia nata per una nostalgia di infinito che Qualcuno ha innestato dentro di noi e che sola può dare senso alla vita.
Chi volesse saperne di più sulla storia della chiesetta di S. Eufemia può cliccare QUI
Ieri….e oggi…
Arrivavo la mattina presto con la bici, che lasciavo nel deposito gestito da due anziane sorelle. Lì trovavo le mie amiche che venivano dai paesi vicini non serviti dalla ferrovia. In inverno avevano i capelli , sfuggiti ai copricapo, trasformati in ghiaccioli che formavano attorno alle loro teste una specie di diadema, che si scioglieva in pochi istanti. Insieme ci avviavamo verso la stazione per andare a scuola in città.
Una cara amica di Facebook ha scritto questo bel commento al mio post e siccome mi pare completi i miei ricordi, le ho chiesto il permesso di pubblicarlo qui di seguito…
“Elettra Susco Diana …per qualche tempo e da studentessa liceale, anch’io ho fatto la pendolare ….per arrivare in stazione dovevo fare circa 2km a piedi, e la stazione che hai descritto è un po’ come la “mia” stazione: sala d’attesa e biglietteria, sotto e sopra l’alloggio del capo-stazione…la sala d’attesa,io la ricordo piena di gente assonnata, piena di fumo di una stufa a legna che non tirava, e di fumo di sigari e sigarette, stantio….era un colpo allo stomaco ogni mattina, per aspettare un treno che somigliava più a un carro bestiame, sempre in ritardo, dove non c’era un posto a sedere, neppure pagarlo oro e dove l’odore “umano” era un’ altra botta allo stomaco…arrivavo a scuola già stanca e pesta..i miei compagni, ma specialmente, le mie compagne erano uscite di casa un’ora e anche più, dopo di me ed erano tutte perfette e truccate di fresco…al ritorno altra attesa in una stazione gemella a quella di partenza e , all’arriva, qualche volta potevo contare su un passaggio che era graditissimo, perchè se all’andata la strada era in discesa, al ritorno, alle 2 del pomeriggio, e digiuna, era in salita…..” (Elettra Susco)
Grazie, Elettra!
24 Maggio.
Oggi ricorre il novantanovesimo anniversario di un evento tragico: l’ Italia entrava in quella che da tutti viene ricordata come la Grande Guerra. E’ stato il primo dei grandi disastri umanitari che hanno caratterizzato il secolo scorso e ha cancellato intere generazioni di giovani. E’ forse da lì che è cominciato il declino dell’ Europa, fino a quel momento potenza egemone dal punto di vista politico, militare, economico e culturale
Domani andremo a votare per l’ elezione del Parlamento europeo: questa Europa va cambiata, ma non va smantellata. Ci ha tenuto al riparo da disastri immani come le guerre che hanno sconvolto per millenni il nostro Vecchio Continente. Ricordiamocene quando saremo nella cabina elettorale.
Cliccando QUI potrete ascoltare alcuni suggestivi canti della Grande Guerra .
Il falciatore
Ora tagliare l’ erba è diventato un lavoro molto semplice: basta azionare un tosaerba nei giardini o una falciatrice nei prati e in poco tempo vaste superfici vengono liberate dal loro mantello erboso.
Io ricordo invece quando, verso sera, nella bella stagione, c’ era sempre qualcuno sulle aie di campagna intento a preparare la sua falce per il lavoro del giorno successivo.
Seduto a terra sul bordo del marciapiede davanti a casa , il contadino o il bracciante piantava a terra un lungo ferro sul quale appoggiava la lama della falce e con un martello cominciava a battere sul filo del suo attrezzo, mentre l’ altra mano lo faceva scorrere lentissimamente e il lavoro continuava fino a quando tutta la lama era stata battuta al punto giusto. Per capire se il filo era abbastanza tagliente, bastava toccarlo col pollice: il rumore prodotto dal leggero sfregamento e il tatto dicevano se il lavoro era stato ben eseguito. Poi c’ era il lavoro di rifinitura per togliere eventuali piccole irregolarità: con la cote, una pietra a forma ovale molto allungata (che mi pare venisse custodita dentro a un corno legato alla cintura contenente un po’ d’ acqua), il contadino lisciava il filo della lama . Mi colpivano la precisione e la destrezza dei movimenti, che testimoniavano una lunga esperienza .
Quando poi si trattava di falciare l’ erba di un prato, il contadino procedeva piano , coordinando tutti i movimenti del suo corpo: mentre le braccia si allargavano azionando la lunga falce, il passo ritmato assecondava quel movimento. Il lavoro era duro e ogni tanto il falciatore si rialzava per ripassare il filo della falce con la cote o per asciugare il sudore della fronte . Dopo ore di lavoro, tutta l’ erba giaceva a terra e lì sarebbe rimasta fino a che non si fosse ben asciugata e proprio per questo veniva più volte rivoltata coi forconi fino a quando fosse stata pronta per rifornire il fienile rimasto vuoto nell’ inverno appena trascorso.
UTE: come si viveva nelle trincee.
Cento anni fa scoppiava la Grande Guerra e all’ UTE oggi si è tenuta una memorabile lezione-spettacolo che ha rievocato quell’ immane tragedia costata 750.000 morti solo in Italia: un’ intera generazione cancellata dalla nostra storia.
La lezione, introdotta dal prof. Porro e condotta magistralmente dal prof. Poggioni e dai suoi collaboratori, ha voluto soprattutto soffermarsi non sulle cause politico/economiche o sulla diatriba tra interventisti e neutralisti , ma sulla vita dei soldati .
Attraverso la lettura di poesie , lettere di soldati, pagine di scrittori presenti sul fronte, abbiamo potuto rivivere l’ orrore delle trincee costantemente invase dal fango e infestate dal fetore dei morti e degli escrementi; abbiamo quasi provato la paura di quei soldati che aspettavano con terrore il comando insensato di attacco da parte di superiori che li consideravano alla stregua di carne da macello e li costringevano quotidianamente ad inutili assalti che li esponevano al fuoco nemico; rifiutare di obbedire voleva dire essere fucilati o esporre la propria squadra alla decimazione.
Poesie note e meno note hanno scandito il recital , mentre sullo schermo apparivano foto d’ epoca accompagnate dai più famosi canti di guerra, nati nel fango delle trincee, canti che da sempre io amo moltissimo e che mi commuovono sempre.
A conclusione della lezione è stata letta la lettera del soldato inglese che racconta il Natale 1914 al fronte, (episodio che ha trovato varie conferme) , quando sul fronte tedesco i soldati hanno cominciato a cantare i loro canti natalizi ricevendo l’ applauso dei loro nemici, che a loro volta hanno risposto con altri canti . Il soldato racconta che alla fine dalle opposte trincee sono usciti quei giovani che dovevano considerarsi nemici, ma che invece si sono scambiati strette di mano e piccoli souvenir.
Alla fine molti avevano gli occhi arrossati dalla commozione e gli applausi sono scrosciati a lungo.
Mia madre da giovane.
Mia madre in questa foto aveva circa vent’ anni e già da dieci lavorava duro, insieme ai fratelli, nella fattoria del nonno, che alla sua morte non lasciò poi nulla a quei nipoti che lo avevano aiutato a mandare avanti il podere.
Guardando questa foto mi fa una grande tenerezza quella mano destra chiusa quasi a pugno: certo non era abituata a posare davanti a un fotografo (questa credo sia l’ unica foto che ritrae mia madre da giovane) e quelle mani abituate da tanto tempo a lavorare non sapeva proprio dove metterle .
Erano gli anni ’30 e la moda aveva accorciato le gonne e i capelli, ma mia madre aveva seguito solo il primo dettame e porterà i capelli lunghi per tutta la vita: ne faceva una sola grossa treccia che arrotolava a formare un piccolo chignon dietro la nuca. Era bella mia madre e soprattutto non ha mai esitato a mettersi a disposizione di chi poteva aver bisogno del suo aiuto.