Le trecciaiole.

Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia è certo la figura della mia nonna materna: era rimasta vedova poco più che trentenne con quattro figli piccoli  e l’ ultima in arrivo. Era stata la spagnola a portarle via il giovane marito alla fine della Grande Guerra. Di questa nonna ho già parlato a lungo , ma non ho raccontato di come avesse sempre tra le mani qualcosa da fare: o faceva delle calze per i figli o faceva la “treccia” ed è di questa sua seconda occupazione che voglio raccontare stasera.

Mi pare di ricordare che ci fosse qualcuno in paese che si incaricava di ritirare i mazzi di paglie da Carpi e poi le distribuiva  alle varie trecciaiole . Mia nonna era una di loro e arrivava in casa nostra con il suo mazzo di paglie sotto il braccio: a volte erano sottili, a volte più larghe, a volte colorate, ma più spesso bianche . Lei si sedeva su una seggiolina bassa e  cominciava a farle volteggiare velocemente intrecciandole in modo da formare lunghissime trecce, lisce o più complesse.

Esaurite le paglie, si doveva lisciare la treccia con un attrezzo a manovella di legno che chiamavamo “slissen” , poi con una specie di lungo bastone con due pioli alle estremità si formavano delle grosse “matasse” che venivano riconsegnate a chi le doveva portare in fabbrica  ed era costui che provvedeva a pagare il lavoro compiuto.

Nelle sere d’ inverno, nelle stalle o nelle case ascoltando la radio, le donne continuavano a cercare di arrotondare i magri introiti della famiglia e spesso anche noi bambini davamo un piccolo contributo facendo “la treccia” che sarebbe poi servita per confezionare cappelli e borse di varia fattura.

Il papa del sorriso e il papa della tenerezza.

 

 

In questi giorni mi torna sempre in mente papa Luciani ,il Papa del sorriso, quello che disse che ” Dio ci è più madre che padre”, intendendo che Egli e’ sempre pronto a capirci, a perdonare , a prenderci come siamo come fa ogni buona madre coi propri figli.

 

Trovo molto vicino a lui  l’ attuale Papa Francesco: molto simili fisicamente, stesso sorriso buono e carico di simpatia e semplicità. Anche papa Francesco accentua l’ aspetto di un Dio che è misericordia sempre, e ci dice che  non ci si deve vergognare della bontà, anzi della tenerezza….

Papa Luciani non ha avuto tempo di lasciare un’ impronta profonda nella Chiesa, vista la brevità del suo papato; spero invece che questo sia consentito a Papa Francesco, che coi suoi gesti semplici e per questo estremamente rivoluzionari  ha indicato la strada che intende perseguire .

 

 

 

 

19 marzo: festa dei papa’.

Nella festa dedicata ai papa’, mi vengono alla mente alcuni ricordi….

Essendo l’ ultima di cinque figli, mia madre non aveva molto tempo da dedicarmi, presa com’era sempre da mille faccende , dal mattino presto fino alla sera tardi. Chi mi faceva compagnia nelle ore libere era mio padre che mi prendeva sulle ginocchia e mi raccontava le solite due storie dialettali: “I’v  vist Cuma Son?” Oppure quella del ragazzo un po’ tonto che, per obbedire a chi gli aveva detto ” Tiret adré la porta”, anziche’ chiudere la porta, se la trascina sulle spalle mentre va alla fiera. Non ne sapeva altre, ma le raccontava accentuando i momenti comici delle due storie e io mi divertivo anche se le sapevo a memoria.

Piu’ spesso pero’ mi teneva vicino mentre faceva degli interminabili solitari a carte, oppure giocavamo all’ asino, a ruba-mazzetto, a “cheva in pataja” o ci sfidavamo nelle prime partite a briscola o a  “tigugnin” (scopa con l’asso pigliatutto) .

Altre volte raccontava di quando era soldato e faceva l’ attendente o di quando rischio’ di perdere il fucile , dimenticato a una fontana dove si era  fermato   per dissetarsi durante una lunga marcia. Mi  ricordo anche di quando raccontava di un episodio di eroismo involontario.

Mio padre era daltonico, ma non lo sapeva e in tempo di fascismo imperante una mattina si presento’ al mercato , dove andava a vendere polli, conigli e uova , con una fiammante camicia rossa. Tutti quelli che lo incontravano lo guardavano sbalorditi , ma non dicevano nulla…. e lui non sapeva spiegarsi il perche’ di quegli sguardi strani e di quei commenti bisbigliati al suo passaggio.

Finalmente un suo amico oso’ avvicinarsi e gli disse :- Hai Davvero un gran coraggio a venire al mercato vestito cosi’!!!!- Mio padre non capiva cosa ci fosse di strano nel suo abbigliamento e allora l’ amico gli fece notare che il colore di moda era il nero e che portare camicie rosse poteva non essere molto igienico: si rischiava una spiacevolissima bevuta di olio di ricino!!!!!

Tanti auguri a tutti i papa’ e a tutti i Giuseppe, a quelli che sono ancora vicino a noi e a quelli che non ci sono piu’.

 

 

C’ è qualcosa di nuovo oggi nel sole….

L’AQUILONE

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:

un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…

sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera

bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?

Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…

A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso.

Sì: dissi sopra te l’orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!

Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.

Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!

Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore

ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…

Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda

tua madre… adagio, per non farti male.

Oggi mi son dedicata ai primi lavori in giardino: ho interrato qualche bulbo, trapiantato qualche primula,  una pianta di rosmarino e qualche ciuffo di viole mammole. C’ era un sole tiepido e un profumo di primavera intorno, così mi son ricordata questa poesia studiata sui banchi di scuola.

Toccano il cuore le parole del Pascoli che descrive i segni della primavera, che gli fa ricordare tempi lontani, i tempi della scuola, le passeggiate in collina col lancio degli aquiloni e i compagni……

Ma a questo punto la poesia prende una svolta quasi imprevedibile : la dolcezza e la nostalgia dei primi ricordi si mutano in amarezza: meglio morire in tenera età,- dice il Pascoli – quando non hai ancora visto venir meno i visi delle persone che hanno percorso  insieme a te le strade della vita, quando hai vissuto talmente poco che morire non ti pesa, quando una mano di mamma può ravviarti i capelli…… Ecco qui Pascoli mi pare terribilmente egoista: come fa a non pensare allo strazio che accompagna quella lenta carezza? Esiste qualcosa di più innaturale che veder morire un proprio figlio? Solo  chi non è mai diventato genitore può scrivere versi così insensati……

Diritto al voto: una conquista difficile.

Oggi è giorno di votazioni e ancora ampia parrebbe la fascia degli elettori assenteisti. Chissà se tanta gente rinuncerebbe ancora a votare se sapesse come si è giunti a ottenere il diritto al voto? Per questo mi sono rispolverata i miei ricordi di scuola (come studente prima e come insegnante poi) e ho preparato un brevissimo sunto, nel quale per brevità ho trascurato di inserire i momenti di lotta attraverso cui si giungeva a ottenere qualche modifica alle leggi vigenti:

1861 – Proclamazione del Regno d’ Italia- vige lo Statuto Albertino. 

Gli elettori, solo di sesso maschile, devono avere 25 anni, saper leggere e scrivere e avere un certo reddito. Gli eletti non avevano diritto ad alcun compenso (potevano vivere di rendita : erano tutti ricchi).

1876 – cade la Destra e va al governo la Sinistra con Depretis, che nel 1882 riconosce il diritto al voto a:

  • maschi 21 enni alfabetizzati  (avevano imparato a leggere e a scrivere, non aveva più peso il reddito).  L’ analfabetismo però era diffusissimo e pochi furono i vantaggi della nuova legge.

1912 – governo Giolitti.

  • una nuova legge consente di votare ai maschi 21enni, alfabetizzati ; ai maschi che avessero assolto il servizio militare di leva o che avessero compiuto i 30 anni , indipendentemente dal reddito o dall’ istruzione. La base elettorale si allargò molto  e potevano candidarsi anche i non abbienti, dato che agli eletti veniva riconosciuto un compenso.

1946 – Nasce la Repubblica italiana  e anche alle donne viene riconosciuto il diritto al voto (solo in quel momento il suffragio diventa effettivamente universale.

1975 – Votano i diciottenni (abbassamento della maggiore età).

Ho qui riassunto il post trovato su  “Albatros -www.siciliaviaggi.com”)

 

Le prime viole.

Si è appena sciolta l’ ultima neve caduta la settimana scorsa e fa ancora freddo, ma nel giardino  sono già fiorite le prime viole. Questo mi ha riportato alla mente giorni lontani….

Quando frequentavo le elementari, c’ era una specie di tacita gara tra noi compagni di classe :  chi sarebbe riuscito a portare alla maestra il primo mazzolino di viole raccolte nei campi?
Così nei primi giorni di bel tempo, ritornando da scuola, ci si metteva d’ accordo con i bambini vicini di casa per ritrovarsi insieme e andare  “a viole”.
Si poteva  uscire senza cappotto perchè il sole era già tiepido nelle ore centrali del giorno.
Si andava per i sentieri sterrati scavalcando qua e là i fossatelli pieni d’ acqua che percorrevano la campagna.
C’ erano i contadini nei campi che terminavano le potature o che raccoglievano le fascine e che, senza parere, ci tenevano d’ occhio.
Noi correvamo verso le rive dei fossi, l’ habitat preferito dalle viole  e capitava di attraversare i campi arati già dall’ autunno e che avevano riposato per tutto l’ inverno sotto la neve.
Il gelo aveva formato sulle zolle nude una crosta superficiale friabile. Calpestandola, essa si sbriciolava e la terra ti riempiva le scarpe, così dovevi toglierle , mentre i piedi affondavano fino a trovare gli strati di terra  sottostanti ancora gelidi e ti accorgevi che nonostante il sole tiepido era ancora inverno.

Poi la corsa riprendeva per raggiungere gli altri amici che nel frattempo avevano proseguito l’ esplorazione.
Le viole più ambite erano quelle a gambo lungo e anche quelle bianche erano particolarmente apprezzate. Ognuno di noi componeva il suo mazzetto senza dimenticare di aggiungere qualche foglia, per renderlo esteticamente più gradevole e con quel trofeo profumato si tornava a casa.
La mattina dopo, si cercava di arrivare a scuola un po’ prima del solito per poter mettere le viole nel vasetto sulla cattedra , così la maestra avrebbe mostrato sorpresa e avrebbe ringraziato chi le aveva donato quel segno inequivocabile della primavera imminente.

UTE: Medicina: le cefalee – storia: le foibe

Il dr. Rigamonti ci ha intrattenuto sul “mal di testa” la sindrome dolorosa più diffusa e quella a cui forse si presta meno attenzione.
Ci sono cefalee primarie (emicrania, cefalea tensiva e cefalea a grappolo – quest’ultima la più dolorosa) e cefalee secondarie, causate cioè da un’ altra patologia.
Vale sempre la pena di non sottovalutare le cefalee ricorrenti: possono essere un campanello di allarme che ci avverte di un problema degno di attenzione.

Il prof.Cossi ha continuato il discorso sulle “foibe” , i massacri avvenuti in territorio slavo sia dopo l’8 settembre ’43 sia dopo la fine della guerra nel ’45.
Le foibe sono servite ad occultare le vittime delle vendette messe in atto dai partigiani di Tito contro gli Italiani , che a loro volta si erano distinti per intolleranza verso la popolazione slava . Ma come sempre in questi casi, quando a prendere il sopravvento è la violenza bestiale, non furono trucidati in modo disumano solo persone compromesse con il regime fascista, ma anche civili colpevoli solo di essere italiani. La maggior parte però delle vittime di quegli eventi non morì nelle foibe, ma nelle carceri o nei campi di concentramento.

Sentir descrivere il modo terribile in cui sono morte tante persone , ci ha riempiti di orrore: ogni guerra ha sempre portato i combattenti di ogni tempo e di ogni latitudine a perdere il senso della pietà, a dimenticare di essere uomini tra gli uomini tanto da arrivare a compiere azioni aberranti senza provarne ribrezzo.

Per non dimenticare…..

Nel campo di Buna abbandonato dai tedeschi la camera degli infettivi, in cui i due francesi e io eravamo riusciti a sopravvivere e ad instaurare una parvenza di civiltà, rappresentava un’isola di relativo benessere: nel reparto contiguo, il reparto dei dissenterici, la morte dominava incontrastata.
Attraverso la parete di legno, a pochi centimetri dalla mia testa, sentivo parlare in italiano. Una sera, mobilitando le poche energie che mi restavano, mi ero deciso ad andare a vedere chi viveva ancora là dietro. Avevo percorso il corridoio buio e gelato, avevo aperto la porta, e mi ero trovato precipitato nel regno dell’orrore.
Erano un centinaio di cuccette: la metà almeno erano occupate da cadaveri irrigiditi dal freddo. Solo due o tre candele rompevano l’oscurità: le pareti e il soffitto si perdevano nelle tenebre, talché sembrava di penetrare in una enorme spelonca. Non vi era alcun riscaldamento, ad eccezione degli aliti infetti dei cinquanta malati ancora vivi. Malgrado il gelo, il tanfo di feci e di morte era cosí intenso che mozzava il fiato, e bisognava fare violenza ai propri polmoni per costringerli ad attingere quell’aria corrotta.
Pure cinquanta vivevano ancora. Stavano raggomitolati sotto le coperte; alcuni gemevano o urlavano, altri scendevano con pena alle cuccette per evacuare sul pavimento. Chiamavano nomi, pregavano, imprecavano, imploravano aiuto in tutte le lingue d’Europa.
Mi trascinai a tastoni lungo una delle corsie fra le cuccette a tre piani, incespicando e barcollando nel buio sullo strato di escrementi gelati. Udendo il mio passo, le grida raddoppiarono: mani adunche uscivano di sotto le coperte,
mi trattenevano per gli abiti, mi toccavano fredde il viso, tentavano di sbarrarmi la strada. Giunsi infine alla parete divisoria, in fondo alla corsia, e trovai chi cercavo.
Erano due italiani in una sola cuccetta, stretti fra loro in un viluppo per difendersi dal gelo: Cesare e Marcello.

Da “La tregua” di Primo Levi