2 Agosto…a Bologna.

strage-di-bologna-2-agosto-1980Trentadue anni fa, avveniva la strage della stazione di Bologna. Ho cercato il sito dell” Associazione familiari delle vittime della strage e da lì ho copia-incollato la testimonianza del ferroviere che si trovava sul primo binario quella mattina alle 10 e 25..

“……Dovetti aspettare il treno Andria-Express. Era in ritardo. Così, con altri colleghi, ci recammo al deposito del personale viaggiante. Un caffè, quattro chiacchiere con altri ferrovieri. L’altoparlante annunciò l’arrivo del treno sul primo binario. Quattro passi a piedi. Passammo davanti alla sala d’aspetto di seconda classe. C’era gente seduta sui marciapiedi, ovunque, il chiosco dei gelati affollato, come quello dei panini, ristoranti stracolmi di persone.
Le 10.10. Andammo in testa al treno. Il capo ci diede i compiti. Il primo conduttore andò in coda, uno rimase là, in testa, e io mi recai al centro.
Le 10.15. Diedi informazioni sugli orari ad alcuni signori che erano appoggiati ai finestrini. Le 10.24. A quel punto ero con la faccia rivolta verso la coda del treno, la sala d’aspetto l’avevo sulla mia destra.Il capotreno fischiò d’improvviso, mi girai, vidi il segnale verde, alzai il braccio destro. Non feci in tempo a prendere il via libera dal conduttore di coda che scoppiò la bomba. Una fiammata enorme, un forte boato. Qualcuno usci dalla sala d’aspetto con gli indumenti bruciati. Intanto si sprigionò una coltre di fuliggine nera, era come se si camminasse dentro un tunnel, misi la mano sulla bocca per proteggermi, la polvere era dappertutto. In quell’esatto istante la sala d’aspetto crollò, anche la tettoia di lamiera e tutto quel fumo andò verso l’alto. E vuoto d’aria mi schiacciò contro la vettura, poi a terra. Sulla gamba mi cadde un pezzo di ferro. Non sentii alcun dolore, in quel momento. Ci fu un silenzio irreale, di due minuti, tremendo, la polvere scese e mi coprì il volto, le mani, tutto. Da quel torpore irreale, mi svegliò un urlo violento. Era qualcuno che si trovava sugli altri binari, vide la scena e urlò, così forte, così chiaro. Mi girai e vidi una persona che veniva verso di me. Mentre correva, gli cadde un masso sulla schiena. Rimase a terra a pochi centimetri. Aveva gli occhi sbarrati, ma forse voleva comunicare qualcosa, un segnale di aiuto. Da solo, cercai di togliere il masso dal suo corpo, ma era troppo pesante. Uscii dalla stazione e chiamai delle persone. Tornammo sul primo binario. Riuscimmo a spostare il blocco. Lui non gemeva. Se lo portarono via con l’autoambulanza. Solo allora mi accorsi che avevo un ginocchio gonfio, triplicato, e andai in ospedale. […]”

Sullo stesso sito si può trovare la cronaca di quella terribile giornata e della reazione della città, della mobilitazione immediata degli ospedali cittadini , dell’ uso dell’ autobus 37 per portare via i cadaveri e i feriti…le autoambulanze non erano sufficienti …

Aggiungo anche il post pubblicato due anni fa in ELDAS in cui mio fratello racconta la sua testimonianza di tecnico RAI sul luogo della strage.

Dopo 32 anni ancora la verità non è venuta a galla e questo rende più amaro il ricordo di quel giorno terribile.

La trebbiatura

Riporto da ELDAS questo ricordo d’ infanzia.
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Pochi giorni dopo la fine della mietitura, succedeva che una mattina, all’alba, il borgo veniva svegliato dallo sferragliare della trebbiatrice. Allora mi alzavo e andavo di corsa alla vicina fattoria.
Ogni volta quella enorme macchina che riempiva l’aia, mi incantava: mi sembrava un grande drago meccanico, somigliante a quello raffigurato nelle immagini di S: Giorgio, solo che non sputava fuoco, ma ingoiava i covoni che un addetto, tutto imbacuccato come se fosse inverno, lanciava nel suo inghiottitoio.
Attorno, in mezzo a un frastuono assordante, si affaccendavano parecchie persone, che andavano avanti e indietro avvolte da una nuvola di polvere e di pula, che il gran caldo faceva appiccicare alla pelle umida di sudore. Una di quelle persone era addetta all’imballaggio della paglia e un’altra ancora raccoglieva il grano che veniva ammucchiato sull’aia, là dove era pavimentata proprio per accogliere il raccolto.

Nei giorni successivi il grano veniva steso, perchè asciugasse al sole e noi bambini venivamo incaricati di fare la guardia perchè i passeri non facessero troppa festa, così ci appostavamo in un angoletto in ombra, pronti a sbucare fuori schiamazzando appena qualche passero si posava goloso a rimpinzarsi il gozzo.
Dovevamo anche rimescolare di tanto in tanto il grano perchè si asciugasse uniformemente, allora strascicando i piedi nudi in quella distesa dorata tracciavamo dei solchi concentrici , o meglio una grande enorme spirale , sotto il sole cocente.
La luce era abbagliante, il grano era caldo e i chicchi ti facevano un lieve solletico scivolando tra le dita.
A sera i contadini con grosse pale di legno ammucchiavano di nuovo il grano per poterlo coprire e ripararlo così dall’ umidità della notte, ma l’ indomani il rito dell’ essiccazione si sarebbe ripetuto fino a che il grano fosse stato pronto per attendere la molitura.

Chi suona il campanello?

Se vi suonano al campanello alle 9 e mezza di mattina nei giorni di sabato o di domenica, non potete sbagliare: sono certamente i testimoni di Geova, che si sono ricordati di voi.
E’ quello che è successo a me e mi son ritrovata nella cassetta delle lettere un volantino che reclamizza il loro annuale raduno.
Anni fa ho avuto occasione di essere ospitata in casa di una coppia di conoscenti, che seguivano questa religione e ho avuto modo di conoscerne qualche aspetto.
Il più singolare riguarda proprio la loro attività di propaganda: ogni seguace è obbligato a un certo numero di ore alla settimana di “predicazione” e in quella circostanza i miei ospiti avevano certo pensato che si stava presentando loro una ghiotta occasione per “evangelizzare” stando comodamente in casa propria senza essere costretti ad andare di porta in porta.

Ed ecco che quando la padrona di casa aveva finito di guardare la tivù (tutta sola nella stanza cui solo lei aveva accesso) venivo amabilmente intrattenuta sulle Scritture, con la chiara convinzione che avrei capitolato.

Ricordo (eravamo a Roma in giorni caldissimi di un’ estate di quasi vent’ anni fa) che una sera eravamo usciti e ci eravamo diretti a Frascati. Lì, mentre la gente attorno si mangiava la porchetta, io mi ritrovai seduta su una panchina , assediata dalla coppia, che continuava a dirmi come loro prendessero la Bibbia in senso letterale, senza farne delle interpretazioni che possono portare a forzature. E mentre dicevano questo snocciolavano citazioni di passi e versetti, accostandoli in modo da avvalorare certe loro tesi, ma io feci loro notare che stavano proprio dando un’ interpretazione soggettiva dei Testi e che se a quelle citazioni io ne avessi accostato altre di mia scelta, saremmo giunti a conclusioni del tutto opposte.

Da quella volta , quando sento suonare il campanello di buon’ ora la mattina del sabato o della domenica, cerco gentilmente, ma con fermezza, di troncare ogni tentativo di colloquio.

Essere nonna.

Non ho mai conosciuto i miei nonni (maschi) , entrambi portati via dalla spagnola; ho conosciuto però le mie nonne.
Una, nonna Carolina, viveva nel paese vicino al mio e me la ricordo solo nel momento in cui , già molto anziana , è venuta per un periodo in casa nostra : ricordo solo che allora verso sera l’ accompagnavo sulla strada a passeggiare un po’, ma la sua scomparsa non mi ha colpito molto: i nostri rapporti erano stati radi e poco profondi.

L’ altra, la nonna Marcellina, abitava accanto a noi, ma era sempre molto preoccupata per tanti problemi e per quel suo gran mal di testa che spesso le faceva dire :- So che morirò presto….- Poi quel suo mal di testa sfociò in un ictus, cui sopravvisse in condizioni gravemente menomate e allora di lei ricordo le volte in cui si soffermava davanti allo specchio per salutare quella signora così gentile che vi vedeva riflessa.
Mia madre l’ ha accudita per 15 anni e capitava anche a me di aiutarla a vestirsi o a pettinarsi e ricordo quando di notte (dormivamo nella stessa stanza) venivo svegliata dalle sue mani che cercavano l’ interruttore della luce e dal suo ansimare faticoso.

Di entrambe però non ricordo gesti di particolare affetto (da noi le smancerie erano ritenute poco dignitose), o momenti particolarmente significativi, forse perchè avevano molti nipoti e sarebbe stato molto arduo coccolarli tutti.

Da molti giorni ho qui con me Davide ed Elisa e spero che portino con sè il ricordo di momenti sereni, di giorni passati facendoci compagnia e cercando di imparare sempre qualcosa di nuovo. Vorrei essere ricordata non solo come nonna biologica, ma come nonna che ha riempito qualche attimo della loro esistenza.

Col caldo , stirare è un incubo, ma una volta era anche peggio..

L’ altra notte il caldo mi ha fatto risvegliare nel cuore della notte (erano le due) con la sensazione precisa che non sarei riuscita a riaddormentarmi tanto facilmente e così dopo un po’ mi sono alzata, sono scesa al piano terra notevolmente più fresco e ho notato che una montagna di panni da stirare cercava insistentemente di attirare la mia attenzione.
Stirare di questi tempi, col caldo che fa, è proprio un brutto mestiere, perciò cosa c’ è di meglio che stirare di notte….
Ho riempito la caldaietta del ferro e in un paio d’ ore ho rimesso in ordine tutto quanto c’ era in giro. Mentre stiravo pensavo che ora tutto è così semplice: basta inserire una spina ….in altri tempi non era così.

Mia madre, quando ero piccola io, usava un ferro a carbone proprio come quello della foto.

Prendeva delle braci dalla stufa, accesa anche d’ estate per poter cucinare, aggiungeva della carbonella fino a riempire il ferro e lo agitava a mo’ di pendolo affinchè la ventilazione che si produceva all’ interno dell’ attrezzo facesse avvampare tutta la carbonella e a quel punto si poteva cominciare a stirare. Anch’ io mi cimentavo a volte in questo lavoro e mi dedicavo alla stiratura dei fazzoletti da naso che la mamma aveva già ben sistemato l’ uno sull’ altro :stirando il primo, anche quello sottostante era già pronto per essere ripiegato .
Le cose più complicate naturalmente venivano stirate dalla mamma, che utilizzava anche uno spruzzatore per inumidire le pieghe più persistenti. Non era raro però che la carbonella sprizzasse scintille dai fori del ferro e allora poteva anche capitare che si verificasse qualche piccola bruciatura sul tessuto sottostante. A volte anche la cenere cadeva sui vestiti da stirare e se non si stava attente si rischiava di dover rilavare l’ indumento.

Quando la carbonella si esauriva, bisognava rifornire di nuovo il ferro e ripetere l’ operazione di accensione della carbonella stessa. Il tutto richiedeva tempo e fatica….

Pensavo a tutto questo nel silenzio della notte e ringraziavo la tecnologia moderna che ha reso meno pesante anche questa parte del lavoro delle casalinghe.

La mattina dopo , appena ho aperto gli occhi, ho pensato con grande soddisfazione che poteva anche far caldo , caldissimo , tanto non dovevo più pensare a stirare.

La spigolatura.

E’ uno dei primi post che ho scritto su Eldas e che ora riporto anche qui per ricordare un tempo che ormai pare così lontano, ma ancora così vivo nella memoria.

La mattina ci alzavamo alle prime luci dell’alba, ci portavamo un po’ di pane e un po’ d’acqua e andavamo sui campi appena mietuti, dopo aver chiesto il permesso al padrone, che mai si sarebbe sognato di negarcelo.
Arrivavamo sul campo coi piedi bagnati di rugiada e l’aria ancora fresca rendeva meno pesante la fatica. Ricordo mia madre ,col capo avvolto in un fazzolettone, china sulle stoppie taglienti che ci ferivano le caviglie, scrutare il terreno per individuare le spighe dimenticate o cadute durante la mietitura. Io e mia sorella la imitavamo e facevamo a gara per fare le mannelle più grosse, che poi riponevamo in un sacco, ben legate con la stessa paglia delle spighe.

Ci facevano compagnia gli uccellini che a quell’ora riempivano l’aria coi loro cinguettii e che forse non erano troppo contenti di vedersi sottrarre quel ben di Dio. Qualche lontano muggito ci diceva che alla fattoria era l’ora della mungitura.

Percorrevamo il campo in lungo e in largo con lo sguardo fisso a terra e quando si trovava un mucchietto di spighe sfuggito ai mietitori era una festa, potevamo ingrossare le nostre mannelle in fretta.

Col passare delle ore il sole picchiava sempre di più sulle nostre teste e la fatica era sempre più evidente sulle nostre facce arrossate e sudate, ma ormai il sacco era pieno; il mio papà arrivava in bicicletta, lo  caricava sulla canna e noi   potevamo tornarcene a casa.

Al giorno d’ oggi, la cultura dello spreco ci ha contaminato così a fondo che sembra incredibile che non troppo tempo fa si facesse concorrenza agli uccellini per procurarsi la farina per l’inverno.

2-3 Giugno 1946/ 2 giugno 2012

Era la prima volta che le donne votavano.
Dalla proclamazione del Regno d’ Italia solo gli uomini avevano avuto il diritto di voto: prima esso era riservato a una ristretta élite di privilegiati poi in fasi successive era stato esteso a strati sempre più ampi della popolazione maschile, ma di voto alle donne neanche a parlarne.

Poi il 2-3 giugno 1946, quando ci fu il referendum per scegliere l’ assetto del nostro Stato, anche le donne ebbero la possibilità di recarsi alle urne.
In paese c’ era gran fermento tra le donne, raccontava mia madre; lei, incinta, era ormai prossima al parto e chi la incontrava le diceva :
-Stai attenta a non partorire mentre sei nella cabina elettorale! –
Sapendo delle sue condizioni, tutti i partiti si erano offerti di venire a casa a prenderla con l’ automobile, ma lei non accettò : sceglierne una poteva far pensare che preferiva un partito piuttosto che un altro  e il  voto invece doveva essere segreto. Un’ anziana vicina, la Nunziata, disse a mia madre che sarebbe stata contenta di accompagnarla e così pur col suo pancione si recò a votare: andarono  a piedi lei e la Nunziata, anche se faceva caldo e la strada da fare non era proprio brevissima, ma non rinunciò a partecipare a quell’ evento memorabile che per la prima volta riconosceva alla donna il diritto di far valere il suo parere, proprio come agli uomini…cosa mai accaduta nella storia del nostro Paese. Due giorni dopo venni al mondo io…

Ora, a distanza di 66 anni, tanti diritti di cui godiamo ci paiono scontati e non diamo loro il giusto valore perchè ci siamo dimenticati delle tante battaglie, combattute da coloro che ci hanno preceduto, per poterli affermare.

La mietitura .

La giornata lavorativa cominciava prestissimo in estate e i mietitori si radunavano sull’aia in attesa che il “rasdor” dicesse su quale campo di grano ci si doveva recare.
Ognuno aveva la sua falce e dei vestiti adatti a riparare il più possiile dalla polvere e dal sole: larghi cappelli di paglia, fazzolettoni al collo e, spesso, piedi nudi .

Noi bambini seguivamo le mamme, perchè a casa non restava nessuno che badasse a noi e ci rendevamo utili posando a terra i “ligam”,. I mietitori con gesti rapidi e sicuri falciavano gli steli ormai secchi ,adagiavano sui legami le mannelle di frumento fino a comporre il covone, che veniva legato e sistemato all’impiedi (con le spighe rivolte verso l’alto) accanto agli altri. Sarebbe poi passato il carro tirato dai buoi a caricarli e a portarli alla cascina.

Noi bambini avevamo anche il compito di portare l’acqua ai mietitori e facevamo la spola tra la cascina e il campo. Al nostro arrivo essi smettevano un attimo di lavorare e ognuno attingeva un buon mestolo di acqua fresca dal secchio riempito al pozzo.
Ricordo con particolare nitidezza i volti arrossati dalla fatica e dal gran caldo e la polvere che si appiccicava ai volti sudati dei mietitori.

Il sole a picco picchiava forte e le stoppie pungevano piedi e caviglie dei mietitori, ma c’era sempre qualcuno che amava cantare e che ogni tanto intonava una di quelle canzoni che tutti conoscevano; via via altre voci si univano alla sua a formare un coro che parlava di fatica sì, ma di fatica condivisa e per questo più sopportabile e più umana