Cantare insieme in libertà…(lasciando andar la voce dove va..)

Quando ancora ero alle superiori, in estate sono andata più volte a fare da educatrice /assistente a bambini e adolescenti in montagna. Erano gruppi organizzati dalla diocesi in modo molto semplice e informale.

Di quelle esperienze ricordo con gran piacere il senso di benessere che mi dava l’ aria di montagna, la bellezza  e l’ incanto dei paesaggi, sia che fossero prati verdi dove l’ erba ondeggiava ad ogni soffio di vento, sia che fossero orizzonti sconfinati limitati da “cime ineguali” splendenti di neve; tutto questo era reso ancora più piacevole dall’  atmosfera di amicizia che si stabiliva sia tra gli adulti sia tra adulti e ragazzi.

La sera , quando i ragazzi erano ormai addormentati nelle camere,  noi educatrici ci riunivamo per prendere accordi sulle attività del giorno successivo e alla fine c’ era sempre chi proponeva : – Facciamo una cantatina?- Allora si intonava un canto di montagna,  o di lavoro o canti folkloristici. Questo serviva moltissimo a cementare l’ amicizia all’ interno del gruppo, a sentirsi “comunità”.

Il giorno seguente gli stessi canti accompagnavano le nostre escursioni o le soste nei rifugi al calore di un camino acceso.

Da allora la passione per il canto corale mi ha accompagnato sempre e mi ha indotto a far parte di una corale prima  e poi a riservare sempre al canto qualche momento  anche nell’ orario settimanale della programmazione per le mie classi.

Uniformare la propria voce a quella dei compagni e esprimere insieme la stessa emozione contribuisce molto a suscitare e rafforzare lo spirito di gruppo  e crea un senso di appartenenza che dà sicurezza .

La Giubiana

http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cronaca/182307_cant_brucia_la_giubiana_migliaia_i_curiosi_in_piazza/

Ieri sera, ultimo giovedì di gennaio, si è bruciata in piazza a Cantù e in altro località dei dintorni “la Giubiana” Ci sono molte versioni sull’ origine della festa , che si perde nella notte dei tempi. A Cantù il rito rievoca una storia medievale legata alla guerra tra Comuni. Ecco cosa dice in proposito Wikipedia:

“A Cantù ad essere simbolicamente immolata su una pira di legno posta nel centro di piazza Garibaldi, nel centro cittadino, è una giovane bellissima che secondo la tradizione rappresenta una castellana che ebbe l’ardire di tradire la città in un lontano passato, forse nella guerra tra milanesi e comaschi del XII secolo. Cantù, alleata a Milano contro la città lariana, subì infatti una dura sconfitta ma la guerra fu infine vinta dai milanesi che conquistarono Como decretando così, secondo questa interpretazione della leggenda, anche la condanna al rogo della giovane. Una tremenda sentenza che viene simbolicamente ricordata ogni anno nella serata dell’ultimo giovedì di gennaio.

Non a caso prima del rogo a Cantù si organizza un corteo con costumi storici: su un carro trascinato a mano e scortato da armigeri, frati e un boia viene caricata la Giubiana, ossia un manichino di donna esposto giorni prima in un locale di via Dante, a due passi da piazza Garibaldi, ad un ipotetico pubblico ludibrio. Durante il corteo, che raggiunge poi il municipio e quindi la piazza centrale per il rogo, viene anche data lettura della condanna. Si tratterebbe comunque di una leggenda visto che non esistono fonti che leghino alla verità storica questi fatti.”

In altre località la Giubiana viene invece rappresentata come una vecchia strega che  rapiva i bambini, e altrove ancora pare rievocare antichi riti propiziatori prima della semina .

Ovunque la festa si conclude con risotto e salsicce.

Dal campo di Fossoli: Una notte infinita…

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il_campo_di_fossoli_tra_memoria_e_progettoDa qui partì Primo Levi con un treno che lo portava  verso la più terribile delle prigionie.  Fossoli fungeva da campo di smistamento e Levi ricorda quei momenti in questa poesia:

Il tramonto di Fossoli
Io so cosa vuol dire non tornare
A traverso il filo spinato
ho visto il sole scendere e morire;
ho sentito lacerarmi la carne
…le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e tornare:
a noi, quando la breve luce è spenta,
una notte infinita è da dormire”
P. Levi

 

Mi è capitato una volta di passare in mezzo a quelle baracche; il pensiero che anche un’ opera di grande solidarietà come “NOMADELFIA” di don Zeno Saltini avesse preso il via da lì, non riusciva a cancellare le immagini di dolore e di orrore che esse richiamavano alla mente. Ora ospitano un museo della Memoria.

In memoria di un carrello amico.

L’ avevamo comprato 26 anni fa, dopo alcune esperienze in tenda, che ci avevano lasciato il ricordo di notti scomode e dell’ umidità che ristagnava dopo la pioggia.

Era bello , essenziale nel design e pratico: bastavano cinque minuti  dopo l’ arrivo in campeggio per aprirlo e avere tutto in ordine : era un carrello-tenda made in Denmark.

Il primo viaggio fu una vera avventura fantozziana: avevamo imballato le attrezzature in modo sbagliato e il telo di plastica che le avvolgeva si gonfiava d’ aria ogni pochi chilometri percorsi, perciò ci dovemmo  fermare a più riprese per risistemare il tutto

Arrivammo in Costa Azzurra e precisamente a S. Raphael decisamente provati  e fu così che ci fermammo al primo campeggio sulla costa che esponeva il cartello “posti liberi”; lì però tutte le piazzole migliori erano occupate stabilmente e ce ne venne assegnata una piuttosto   scoscesa e sassosa. Fu un’ impresa improba trovare una posizione di equilibrio e nonostante tutto quando si saliva sulle camerette il carrello ondeggiava sensibilmente. In realtà non c’ era nessun pericolo, ma  passammo ugualmente una notte insonne tra un ondeggiamento e l’ altro ogni volta che uno dei nostri figli si rigirava nel lettuccio.

Il giorno dopo ci trasferimmo in un campeggio poco più distante dal mare e potemmo sistemarci in una piazzola ampia, ben spianata e ombreggiata da alti pini marittimi: si stava veramente bene . Negli anni successivi andammo in Spagna, ancora in Francia e in varie località marine in Italia (campeggi carissimi, allora).

Lo abbiamo usato l’ ultima volta una decina di anni fa. Eravamo ai primi d’ agosto e avevamo penato tutto il giorno per trovare un posto libero sulla riviera adriatica. Era già buio quando abbiamo trovato un posto dove posizionare il carrello, aprirlo e buttarci esausti nelle camerette. Ci eravamo appena addormentati, quando un rumore terribile ci svegliò di soprassalto mentre tutto il carrello vibrava paurosamente: eravamo quattro adulti, per fortuna, e tutti e quattro ci catapultammo fuori dalla tenda mentre quel rumore assordante continuava ancora . Stavamo rischiando un infarto collettivo, ma subito capimmo cos’ era che ci aveva spaventati a morte: avevamo piazzato il carrello accanto a una rete metallica che ci separava dalla massicciata della ferrovia: quello che era passato a tre o quattro metri di distanza era un direttissimo Bari- Milano che in quel tratto sprigionava tutta la velocità di cui era capace!!!! Non cercammo di cambiare campeggio, perchè in quei giorni c’ era il tutto esaurito su tutta la costa; per due o tre notti non ci fu possibile dormire , poi venne un nubifragio che allagò il campeggio e ci costrinse a scappare in fretta e furia.

Da allora il carrello è rimasto inoperoso a deteriorarsi maliconicamente sotto le intemperie, anche perchè quando chiedevamo come potercene sbarazzare sorgevano sempre difficoltà: era targato, quindi bisognava portarlo alla demolizione, ma il demolitore voleva solo la carcassa e non le parti non metalliche…. il tempo ha fatto marcire queste ultime  e venerdì il carrello (ridotto a una scatola vuota) è stato issato su un carro attrezzi e portato via, ma sembrava non volesse andarsene, tanto hanno dovuto penare per caricarlo.

Nel vederlo allontanarsi mi son venuti in mente tutti questi ricordi che ho scritto qui.

Il telaio.

C’ era una famiglia di agricoltori vicino a noi , che abitava in una casa che allora a me pareva quasi di lusso, infatti entrando ci si trovava in un ingresso ben pavimentato con mattoni rossi levigati e da lì si accedeva in un locale  ampio (a me che ero piccola sembrava vastissimo) dove si trovava una grossa stufa a legna e davanti a questa troneggiava un tavolo lunghissimo che certo in altri tempi aveva dovuto accogliere una famiglia patriarcale ben più numerosa di quella che io conoscevo. Da lì si arrivava a un altro locale dove mi pare ci fosse un lavandino con tante pentole di rame appese alla parete e poco discosto c’ era un grosso e rozzo telaio, che doveva avere una lunghissima storia alle sue spalle. Arrivava fin quasi al soffitto ed era talmente complesso, almeno per me, che quando vedevo la Dina (la padrona di casa) all’ opera ( nei mesi invernali) su quel marchingegno mi pareva impossibile che una persona sola potesse manovrare quella macchina enorme.

Un inverno mia madre chiese alla vicina di prestarle il telaio: probabilmente la nonna era riuscita a preparare molto filato e mia madre intendeva rinnovare la biancheria senza appesantire ulteriormente il conto sempre aperto al negozio di tessuti del paese. Una volta montato in casa nostra, quel telaio occupò buona parte del locale che fungeva sia da cucina che da soggiorno.

I fili dell’ ordito si alzavano e si abbassavano intrecciandosi sotto l’ azione di un pedale, mentre le mani di mia madre facevano scorrere velocemente la spola da un capo all’ altro e subito dopo tiravano con forza il pettine che doveva compattare l’ intreccio dei fili. Il tutto avveniva tra lo stridore dei pedali e il battere ritmico del pettine. Lentamente il tessuto cresceva e veniva arrotolato via via su un rullo, che stava nella parte inferiore del telaio.

Ricordo che mi piaceva molto stare a guardare la mamma al lavoro e vedere che il rotolo del tessuto si ingrossava a poco a poco. Alla fine erano state preparate lenzuola a una e a due piazze , che risultarono piuttosto spesse e anche molto ruvide: quando ci si coricava sopra , sembrava di essere su  una grattugia  e subito si provava un certo fastidio, ma poi a poco a poco ci si abituava e quel  massaggio che il tessuto grezzo esercitava sul corpo diventava quasi piacevole e sicuramente anche benefico .

Ora e sempre: UNITA’.

Nel mio sussidiario di quinta elementare c’ erano pagine dedicate alle biografie dei  personaggi più illustri della storia e della scienza, fra questi ricordo che allora ammiravo molto Giuseppe Mazzini : vedevo in lui il rivoluzionario irriducibile che aveva infiammato i cuori di tanti giovani proponendo loro i suoi ideali.

Alle medie invece mi appassionò maggiormente la figura di Garibaldi:  lui, l’ eroe dei due mondi, era sempre alla testa dei suoi uomini, ne condivideva i pericoli e i disagi , mentre Mazzini mi appariva come colui che dice”armiamoci e partite!!”

Quando poi fui alle superiori, imparai ad apprezzare soprattutto il conte di Cavour e le sue capacità di statista e di “tessitore” di relazioni diplomatiche, che gli permisero di portare il piccolo Regno di Sardegna al tavolo dei “grandi” d’ Europa.  Fu allora che sentii per la prima volta accennare anche ai problemi dei decenni successivi all’ unità d’ Italia : quello che era stato definito sbrigativamente brigantaggio e che era stato stroncato con violenza ottusa era la comprensibile reazione a una politca coloniale messa in atto da politici miopi.

In seguito ho avuto l’ occasione di leggere, molti anni fa, un libro di uno storico inglese che poneva l’ accento sul sorgere e sull’ evoluzione del problema meridionale in Italia e mi ha fatto capire come lo stato italiano , dopo l’ unificazione , non ha mai avuto tra i suoi obiettivi la valorizzazione del Sud, che a poco a poco si è sempre più impoverito anche grazie a una classe dirigente meridionale che mirava a tenere in soggezione dei sudditi, piuttosto che a promuovere dei cittadini.

Solo ultimamente si è cominciato a parlare degli orrori che hanno accompagnato l’ unificazione: massacri di interi villaggi, campi di concentramento, vere e proprie azioni di guerra per reprimere ogni richiesta di maggiore giustizia.

Con tutto questo ,  a mio avviso l’ unità di questo nostro paese è pur sempre cosa buona, perchè solo unito può sperare di far sentire la sua voce in Europa e quindi nel mondo. Vogliamo darci una struttura federalista? Va bene; questa può essere l’ occasione per costringere tutti a una maggiore responsabilità nei confronti della “cosa pubblica”, ma se qualcuno mirasse a dividere noi Italiani in tante “tribù” contrapposte, farebbe la rovina  sia del nord che del sud.

Prima seduta del Parlamento italiano: 18 febbraio 1861.

La stufa a legna.

stufa a legnaEra nell’ angolo opposto al caminetto e, nello spazio che la separava dal muro esterno, veniva riposta la legna: ceppi spaccati con la scure  e stecchi sottili  che si andavano a raccogliere in campagna dopo la potatura o quando veniva abbattuto qualche albero e se ne facevano fascine.
Il piano superiore era in ferro e presentava tre gruppi di cerchi concentrici che venivano tolti per regolare la larghezza del “contatto” col fuoco vivo a seconda della dimensione della pentola.
Sulla facciata anteriore si apriva lo sportello che chiudeva il vano-fornace, sotto c’era uno sportello più piccolo attraverso il quale veniva estratta la cenere e di fianco si apriva il forno.
Nella parte più bassa c’era un vano vuoto in cui mia madre a volte metteva anche le pantofole perchè si scaldassero.
Di fianco al piano cottura c’era un contenitore in rame sempre pieno d’ acqua calda,  pronta per tutte le necessità.
Il tubo di scarico, che attraversava buona parte della stanza per ottimizzare la resa della stufa, presentava ad altezza d’uomo (ma sarebbe meglio dire ad altezza di donna) un anello di ferro munito di tanti raggi che potevano essere alzati o abbassati : su di essi venivano appesi mestoli e schiumarole o i panni  da asciugare quando fuori pioveva .
Sul piano cottura arrostivamo le castagne o le fette di polenta avanzata dal giorno prima e nel forno ogni mattina la mamma  (che si alzava prestissimo per accendere il fuoco) metteva l’uovo che dovevamo sorbirci prima di andare a scuola o le mele da cuocere: non sono più riuscita a mangiare mele cotte buone come quelle.

Solo la cucina veniva riscaldata. Le stanze da letto erano molto fredde e così anche le coperte del letto, perciò ecco che dalla stufa, verso sera si estraeva la brace. Con essa si riempivano dei piccoli contenitori (padlèni) foderati di cenere , che venivano inseriti nel prét (una struttura in legno adatta a sollevare le coperte , che non dovevano venire a contatto con le braci.
Quando si tornava a casa coi piedi intirizziti dal freddo, la mamma ci faceva togliere le scarpe e ci faceva appoggiare i piedi sullo sportello più basso e al tepore che ne usciva ti sentivi rinascere.

Un balilla ribelle.

Nonno Pippo racconta:

Ero alle elementari . Al sabato pomeriggio, quando sarebbe stato così bello poter giocare tranquilli, c’ era invece da assolvere a un altro impegno: le adunate dei “balilla ” nella piazza  principale della città. Era un appuntamento obbligato , infatti l’ eventuale assenza sarebbe stata segnalata al maestro che avrebbe provveduto all’ ammonizione.

Mi era poi particolarmente insopportabile dover  indossare  la camicia nera, i pantaloni corti color grigio verde e il fazzoletto azzurro al collo. Ogni capo era stato lavato e stirato con cura per farmi fare bella figura là, nella piazza, ma per me tutta quella messinscena  aveva il sapore assurdo  dell’ imposizione senza senso.

Una volta , dopo essermi incamminato,  incontrai il solito gruppetto di ragazzini del vicinato; facevamo sempre la strada insieme scherzando e ridendo e, magari anche un po’ mugugnando contro quell’ obbligo dell’ adunata. Quel giorno però, uno di loro aveva portato una palla di carta e ogni tanto faceva qualche palleggio : fu così che cominciammo a fare qualche passaggio, qualche tiro, qualche parata . Non c’ erano macchine in circolazione, perciò non c’ era pericolo e ogni angolo di strada poteva all’ occasione diventare un campo di calcio.  Il sole era alto e il caldo soffocante; correndo, dribblando, crossando , ogni tanto ci scappava qualche scivolata e qualche tuffo acrobatico e alla fine del percorso eravamo sudati, impolverati e la divisa era irriconoscibile.

Ad attenderci in piazza c’ era l’ avanguardista incaricato di gestire l’ adunata dei balilla ; vedendoci arrivare in quello stato pietoso cominciò a rimproverarci urlandoci in faccia che  la divisa era sporca e in disordine;non era quello il modo di presentarsi all’ adunata !!! I miei amici incassarono il rimprovero a testa bassa , ma io  (ribelle per natura ) feci capire a quel giovanotto  che non mi aveva spaventato per nulla. Questi allora , ancor più irritato dal mio atteggiamento, riprese minacciando di raccontare tutto a mio padre e al mio maestro e fu a questo punto che mi scappò un “Vaffa…” , mentre i balilla schierati sotto il sole assistevano sbalorditi al battibecco.