Film: Io capitano.

Il film inizia in un villaggio del Senegal dove due cugini, Seydou e Moussa, di nascosto dalle rispettive famiglie, stanno raccogliendo soldi per fare “il viaggio” verso l’Europa per poter migliorare le condizioni di vita della propria famiglia. Il villaggio è molto povero, la gente  riesce appena a soddisfare i bisogni essenziali, ma non  perde mai l’occasione per fare festa insieme. La madre di Seydou viene a sapere del progetto del figlio e ne rimane molto addolorata, ma il ragazzo una notte parte col cugino.

Da quel momento comincia un’autentica “via crucis ” infestata da pericoli d’ogni genere e soprattutto da trafficanti disumani che non esitano a derubare i migranti e ad infliggere pene inaudite a quelli che non possono pagare. In tutto questo orrore, Seydou ha la fortuna di incontrare un uomo che rivede in lui il figlio della stessa età: insieme riusciranno a riguadagnarsi la libertà e il ragazzo raggiungerà le coste della Libia dove, non avendo il denaro per pagare il viaggio per sé e per il cugino, accetterà, lui che non ha mai visto una barca, di guidare il peschereccio che lo porterà insieme a tanti altri disperati verso le coste italiane.

Questo film è molto coinvolgente, emozionante e a tratti sconvolgente; è stato scritto basandosi sulle vicende reali di diversi migranti.  I protagonisti,  pur vivendo le atrocità più impensabili, non perdono la loro umanità, a differenza dei trafficanti che per il danaro non esitano a compiere le bassezze peggiori.

Tutti dovrebbero vedere questo film-documento, soprattutto quelli che pensano che i migranti siano solo gente che viene qui per  spirito di avventura o per ingrossare le fila della malavita.

Film: Jeanne du Barry.

Se amate i film che ricostruiscono un momento storico con apprezzabile fedeltà, amerete il film “Jeanne du Barry”.

jeanne du BarryLa pellicola racconta la storia di Jeanne,  ragazza poverissima, ma intelligente e istruita, che riesce ad arrivare alla corte di Luigi XV e a diventare la sua favorita .

Molte scene del film sono state girate nel Castello di Versailles e colpiscono per lo splendore degli ambienti e per la ricchezza dei costumi. La protagonista è interpretata da Maiwenn, che è anche la regista; nel film si sottolinea l’anticonformismo di Jeanne, che ama la cultura e le arti (in un’epoca in cui alle donne non si riconosceva il diritto all’istruzione) e che non ha paura di stravolgere le stantie consuetudini della corte parigina.

Nel ruolo di Luigi XV si può ammirare un  bravissimo Johnny Depp, che non ha più lo smalto dei vent’anni, ma mantiene un indubbio fascino e sa interpretare in modo credibile un sovrano ormai attempato che vede nella sua favorita un soffio di autenticità in un mondo che lo opprime con la sua ipocrisia.

Mi ha colpito il fatto che la corte e i familiari del re ritenevano un intollerabile scandalo la presenza di Jeanne a corte accanto al sovrano, perché la giovane donna non era nobile e non era sposata, per questo Luigi XV costringe il conte Du Barry a sposare Jeanne, che così acquisisce il titolo nobiliare e lo status di “donna perbene”: ora sì che può comparire al fianco del re come sua favorita ufficiale!!!

Insomma è stato un piacere seguire le vicende narrate nel film e, alla fine, non è mancato un momento di commozione.

Film: Clemency.

Segnalo questo film, che parla della pena di morte, ancora in vigore in molti stati degli USA.

Non è certo il primo film, a parlare di questo tema, ma in Clemency esso viene visto da una prospettiva diversa da quella del condannato. Infatti la protagonista è una direttrice di un carcere che, per dovere d’ufficio, si trova a dover espletare tutte le formalità previste dai regolamenti per giungere all’esecuzione del prigioniero.

Lei sente come un peso insopportabile il dover sostenere lo sguardo e l’angoscia dei prigionieri nel braccio della morte e anche quello dei familiari, che non smettono di ricorrere a tutti gli organi preposti per ottenere una grazia che non verrà mai concessa. Il suo tormento è talmente profondo che rischia di compromettere anche la sua vita familiare.

Il film, che non si basa su una storia vera, tuttavia fa riflettere sulla disumanità della pena di morte, che arroga allo stato il diritto di uccidere: ma lo Stato può avere il diritto di togliere la vita a un cittadino? Lo stato non può diventare assassino per punire gli assassini: si macchia dello stesso delitto che vuole punire.   E che questo sia possibile ancora in tanti stati del mondo che si dicono civili è uno scandalo insopportabile.

Il film è molto ben fatto e molto ben interpretato: vale la pena vederlo.

“Rapito” un film che fa discutere.

Peccato! Non ho avuto notizia di questo incontro avvenuto a Lecco con il regista Bellocchio: avrei fatto in modo da non perderlo…

Si parlava dell’ultimo film del regista intitolato “Rapito”, nel quale si ricorda la nota vicenda di Edgardo Mortara, bambino ebreo di Bologna, strappato alla sua famiglia a 7 anni dai soldati di Papa PIO IX.

Quale il motivo di questo “rapimento”? Nel suo primo anno di vita, Edgardo fu colpito da una malattia tanto grave che la domestica, cattolica, credendolo in fin di vita, lo battezzò all’insaputa dei genitori (è risaputo che in casi di emergenza qualunque cristiano può impartire il battesimo).

Dopo alcuni anni, la domestica confidò questo segreto a un sacerdote che , secondo le leggi dello Stato Pontificio (di cui allora Bologna faceva parte), fece in modo di ottenere la decadenza della patria potestà dei genitori perché il bambino, divenuto cattolico, doveva essere educato secondo la religione cattolica.  Edgardo venne portato a Roma e crebbe in un collegio sotto la protezione diretta di Papa Pio IX . Diventato adulto, Edgardo si fece sacerdote e rifiutò di rientrare nella sua famiglia, che non aveva mai smesso di tentare ogni via per riaverlo.

Il caso fece molto scalpore all’epoca (siamo nel 1858) e  oggi non riusciamo a comprendere come ciò sia potuto avvenire: oggi la Chiesa parla di dialogo tra le varie fedi religiose, parla di accoglienza, di rispetto e di fratellanza … Papa Francesco ribadisce ad ogni occasione questi concetti e spesso punta il dito contro il proselitismo: la fede va testimoniata con una vita coerente con gli insegnamenti di Gesù Cristo.

Oggi siamo consapevoli che ci sono molti modi per arrivare a Dio e che solo LUI sa scrutare nei cuori e giudicare con giustizia.

Film: Ordinary love . Un amore come tanti.

ordinary loveUna coppia, che ha vissuto insieme una vita intera e ha superato la tragedia della morte della figlia, si trova ad affrontare una nuova dura prova: la donna, mentre fa la doccia, scopre di avere un nodulo al seno.

Dopo le visite e gli esami cui si sottopone, arriva la diagnosi: tumore al seno. Comincia così l’iter che la porta a sottoporsi alla chemioterapia, all’intervento chirurgico e alla mastectomia totale. Il marito le sta accanto in ogni momento, con affetto, pazienza e delicatezza, sopportando anche gli sbalzi d’umore della moglie. Il film ritrae i due nei momenti che molti di noi conoscono: le attese delle visite, le sedute di chemioterapia, l’ansia in attesa di un referto… I dialoghi tra loro sono quelli che nella realtà intercorrono tra due persone che stanno affrontando insieme una situazione difficile, di cui non si può conoscere l’esito, ma che sanno sostenersi mano nella mano con semplicità.

I protagonisti, Liam Neeson e Leslie Manville, sono molto bravi e interpretano il  loro ruolo con grande naturalezza, dando credibilità ai loro personaggi.

Docu-film: African dreamers.

Sembra che certe cose non siano possibili, eppure  gli autori del docu-film “African Dreamers” non hanno inventato nulla. Hanno seguito per tre anni le vicende di cinque bambine di diversi paesi africani e le loro storie sono veramente tragiche: accusate di stregoneria, rapite e stuprate, abbandonate alla vita di strada, inseguite da una povertà avvilente.

Fortunatamente, per ognuna di loro un incontro fortunato con una casa di accoglienza o con persone disposte ad aiutarle segna una svolta positiva nella loro vita e possono riprendere a sognare una vita dignitosa e a fare progetti per il proprio futuro.

Ne consiglio caldamente la visione: ci si può rendere conto del perchè arrivino sulle nostre coste tanti bambini non accompagnati: fuggono dall’inferno.

La voce di Shlomo

Non so quanti venerdì notte, giorno della memoria, siano rimasti svegli fino a tardi e  siano rimasti sintonizzati su Rai1 dopo la bella trasmissione dal “Binario 21” e il film in tema che ne è seguito.

Chi fosse rimasto davanti alla Tv avrebbe potuto seguire un film-documentario veramente traumatizzante: “Il respiro di Shlomo”.

Shlomo Venezia era un ragazzo di origine italiana; catturato a Salonicco venne deportato in Germania e lì, essendo piuttosto robusto, venne messo a lavorare ai forni crematori…. credo la più orribile delle condanne: lui, schiavo, doveva assistere all’esecuzione di altri schiavi solo più deboli di lui.

Shlomo, con lucida freddezza, sul luogo in cui sorgevano i forni crematori, spiegava come avveniva l’avviamento alle camere a gas dei prigionieri, che dopo giorni e giorni di un viaggio allucinante, credevano davvero di poter fare una doccia. Si affrettavano a procurarsene una e cominciavano a pregustarne il sollievo, ma  da quelle docce veniva invece la morte. Shlomo li vedeva urlare di dolore e di paura, tendere le braccia al cielo e poi cadere tra lamenti strazianti. A quel punto interveniva il Sonderkommando, il gruppo cui apparteneva Shlomo. C’erano tanti cadaveri da rimuovere e da portare ai forni, ma prima Shlomo doveva tagliare i capelli delle donne, metterli in un sacco e periodicamente un camion veniva a portare via quei sacchi. Shlomo ha raccontato anche che al suo arrivo, uno dei prigionieri assegnato al Sonderkommando si è rifiutato di entrare nella camera a gas per cominciare il suo lavoro; un soldato tedesco gli ha ripetuto più volte il comando, ma quel ragazzo ha continuato a rimanere impietrito davanti all’orrore che si era spalancato davanti ai suoi occhi. Il soldato gli puntò la pistola alla tempia senza ottenere risposta e sparò. “E’ stato il più fortunato” ha commentato Shlomo, che ha dovuto anche accompagnare in quella camera della morte anche dei parenti … E’ stato a questo punto che gli è mancato il respiro per un attimo.

Quella freddezza nel raccontare, cui ho accennato prima, mi dava ancora più angoscia che se la  voce fosse stata rotta dall’emozione.  Qual è il livello di sofferenza che scava talmente a fondo nell’anima di un uomo fino  a costringerlo a costruirsi una corazza tanto impenetrabile? Shlomo non aveva mai parlato di quel periodo nei lager  con i suoi figli: non voleva che la sua sofferenza rompesse gli argini che aveva faticosamente costruito e  traboccasse ferendo i suoi cari.

Dicono che tornato a casa stesse molto a lungo in silenzio e immagino che nella sua mente rivedesse quel periodo della sua vita e fosse oppresso dai sensi di colpa per essere sopravvissuto all’inferno.

 

 

 

Film: Una volta nella vita.

Chi legge questa mia pagina sa che non ho la pretesa di fare recensioni, ma solo di raccontare storie cinematografiche che mi hanno emozionato. Ieri su Rai Play ho visto appunto un film che  racconta una storia vera e che mi ha toccato profondamente. Forse il mio apprezzamento è dovuto al fatto che è ambientato in una scuola e a quel mondo io mi sento ancora molto legata.

Siamo in Francia e la prof. Gueguen che insegna storia, geografia e arte, si trova a dover affrontare una classe particolarmente difficile, composta da ragazzi (siamo in una scuola superiore) provenienti da famiglie disagiate. I primi approcci sono molto difficili: i ragazzi non si interessano affatto alle materie di studio, irridono i vari insegnanti che si alternano nelle ore di lezione, mancano loro di rispetto in mille modi e spesso la classe è turbata da episodi di aggressività e violenza.

La prof. Gueguen tenta un approccio diverso dal solito e propone un’attività complementare facoltativa: la partecipazione a un concorso sul tema della “Shoa”. I ragazzi devono fare delle ricerche e lavorare in gruppo. Inizialmente la proposta viene accolta con un po’ di diffidenza, poi via via l’interesse cresce e i ragazzi raccolgono foto, documenti giornalistici, testimonianze di sopravvissuti, visitano musei dedicati al tema della loro ricerca e leggono libri suggeriti dall’insegnante. I ragazzi lavorano di buona lena pertanto non ci sono più problemi di disciplina;  imparano a collaborare tra loro mettendo in comune il frutto del loro lavoro. Anche i più ribelli alla fine si uniscono ai compagni e danno il loro contributo.

Il finale si intuisce da subito: la classe vince il concorso e quei ragazzi, che costituivano un problema per la scuola e per la collettività e che sembravano non avere speranze di riscatto, riescono a conseguire il diploma e ad avere così una speranza di potersi inserire in modo costruttivo nella società. Quel concorso ha dato loro la possibilità “una volta nella vita” di emergere e di sentirsi vincenti.

Questo film mi ha fatto pensare a quanto sia importante il lavoro degli insegnanti e quanto sarebbero da gratificare e incoraggiare quelli tra loro che più si impegnano per dare ai ragazzi la possibilità di esprimere tutte le proprie potenzialità, nella consapevolezza che  ogni individuo ha dei talenti da valorizzare anche nelle condizioni più svantaggiate.

I ricordi più belli della mia vita da insegnante sono proprio legati ai ragazzi con maggiori problemi: quando ottieni qualche risultato insperato, provi la soddisfazione di essere stata utile e capisci il senso delle tue fatiche.