Le trecciaiole.

Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia è certo la figura della mia nonna materna: era rimasta vedova poco più che trentenne con quattro figli piccoli  e l’ ultima in arrivo. Era stata la spagnola a portarle via il giovane marito alla fine della Grande Guerra. Di questa nonna ho già parlato a lungo , ma non ho raccontato di come avesse sempre tra le mani qualcosa da fare: o faceva delle calze per i figli o faceva la “treccia” ed è di questa sua seconda occupazione che voglio raccontare stasera.

Mi pare di ricordare che ci fosse qualcuno in paese che si incaricava di ritirare i mazzi di paglie da Carpi e poi le distribuiva  alle varie trecciaiole . Mia nonna era una di loro e arrivava in casa nostra con il suo mazzo di paglie sotto il braccio: a volte erano sottili, a volte più larghe, a volte colorate, ma più spesso bianche . Lei si sedeva su una seggiolina bassa e  cominciava a farle volteggiare velocemente intrecciandole in modo da formare lunghissime trecce, lisce o più complesse.

Esaurite le paglie, si doveva lisciare la treccia con un attrezzo a manovella di legno che chiamavamo “slissen” , poi con una specie di lungo bastone con due pioli alle estremità si formavano delle grosse “matasse” che venivano riconsegnate a chi le doveva portare in fabbrica  ed era costui che provvedeva a pagare il lavoro compiuto.

Nelle sere d’ inverno, nelle stalle o nelle case ascoltando la radio, le donne continuavano a cercare di arrotondare i magri introiti della famiglia e spesso anche noi bambini davamo un piccolo contributo facendo “la treccia” che sarebbe poi servita per confezionare cappelli e borse di varia fattura.

Le prime viole.

Si è appena sciolta l’ ultima neve caduta la settimana scorsa e fa ancora freddo, ma nel giardino  sono già fiorite le prime viole. Questo mi ha riportato alla mente giorni lontani….

Quando frequentavo le elementari, c’ era una specie di tacita gara tra noi compagni di classe :  chi sarebbe riuscito a portare alla maestra il primo mazzolino di viole raccolte nei campi?
Così nei primi giorni di bel tempo, ritornando da scuola, ci si metteva d’ accordo con i bambini vicini di casa per ritrovarsi insieme e andare  “a viole”.
Si poteva  uscire senza cappotto perchè il sole era già tiepido nelle ore centrali del giorno.
Si andava per i sentieri sterrati scavalcando qua e là i fossatelli pieni d’ acqua che percorrevano la campagna.
C’ erano i contadini nei campi che terminavano le potature o che raccoglievano le fascine e che, senza parere, ci tenevano d’ occhio.
Noi correvamo verso le rive dei fossi, l’ habitat preferito dalle viole  e capitava di attraversare i campi arati già dall’ autunno e che avevano riposato per tutto l’ inverno sotto la neve.
Il gelo aveva formato sulle zolle nude una crosta superficiale friabile. Calpestandola, essa si sbriciolava e la terra ti riempiva le scarpe, così dovevi toglierle , mentre i piedi affondavano fino a trovare gli strati di terra  sottostanti ancora gelidi e ti accorgevi che nonostante il sole tiepido era ancora inverno.

Poi la corsa riprendeva per raggiungere gli altri amici che nel frattempo avevano proseguito l’ esplorazione.
Le viole più ambite erano quelle a gambo lungo e anche quelle bianche erano particolarmente apprezzate. Ognuno di noi componeva il suo mazzetto senza dimenticare di aggiungere qualche foglia, per renderlo esteticamente più gradevole e con quel trofeo profumato si tornava a casa.
La mattina dopo, si cercava di arrivare a scuola un po’ prima del solito per poter mettere le viole nel vasetto sulla cattedra , così la maestra avrebbe mostrato sorpresa e avrebbe ringraziato chi le aveva donato quel segno inequivocabile della primavera imminente.

Quando i maiali erano preziosi….

Ripubblico questo ricordo della macellazione del maiale in casa mia , che risale a circa sessant’ anni fa. Si era perso tra i meandri del blog e ce n’è voluto un po’ per ritrovarlo…

In primavera il papà comprava un porcellino, che, finchè era molto piccolo, così roseo e vivace, era veramente grazioso mentre scorrazzava in cortile o mentre poppava dal grosso biberon con cui veniva nutrito nei primi tempi.
In seguito, ogni giorno si utilizzava l’ acqua di cottura della pasta o il siero del latte, che il papà si procurava al caseificio , per preparare il “pastone” utilizzando anche gli avanzi di cucina ai quali veniva aggiunta una buona dose di crusca e anche il mangime comprato in paese.

Il maialino cresceva molto in fretta e ben presto diventava talmente grosso che, quando veniva tenuto in cortile per lasciarlo grufolare qua e là , veniva legato a un paletto e a noi bambini veniva raccomandato di stargli alla larga.

Quando, veniva la stagione fredda (dopo Natale, credo) a un certo punto si cominciava a parlare del “masalari” (macellaio o norcino) che sarebbe venuto il tal giorno. Mi pare si chiamasse Magretti e ne ricordo la figura alta e magra, il viso abbronzato e solcato da profondissime rughe e il lungo grembiule di tela incerata.

Quella mattina , subito dopo la colazione, mia madre mi disse di andare a trovare la mia amica nella fattoria vicina ; mentre percorrevo il sentiero , mi giunsero alle orecchie le urla acutissime del maiale e io mi misi a correre più forte che potevo per la paura. Quando più tardi ritornai a casa, ricordo di aver visto la carcassa biancastra e fumante del maiale stesa su un tavolaccio in mezzo al cortile, mentre un odore piuttosto nauseante si spandeva nell’ aria.
Tutt’ attorno si affaccendavano il Magretti con il suo garzone e anche papà e mamma che davano una mano. Alla sera si consumava subito il sanguinaccio con la polenta e già il giorno dopo c’ erano i ciccioli saporitissimi e croccanti, che si scioglievano in bocca. Si cucinavano anche gli ossi, per spolparli con cura e poi venivano ceduti (venduti?) a chi li avrebbe indirizzati alle fabbriche di oggetti di uso quotidiano.

Ricordo anche la preparazione degli insaccati che ci avrebbero fatto buona compagnia per il resto dell’ inverno: azionando un utensile che non so descrivere, venivano riempite sapientemente le budella accuratamente lavorate e in men che non si dica il tavolo di cucina si riempiva di salsicce, di cotechini, di salami…
Credo di ricordare che i prosciutti venivano venduti almeno in parte, forse per pagare il norcino…

Quando gustavamo le prelibatezze , dono del nostro prezioso maiale, nessuno in famiglia , nemmeno io, pensava a quale triste sorte gli fosse toccata : era stato comprato e allevato per questo , niente di più normale. Ricordo anzi una certa atmosfera di festa per l’ abbondanza di cose buone che comparivano sulla tavola.

Il IV Novembre per me….

Il 4 novembre per me:

è la morte dei miei nonni (uno dei quali giovanissimo);
è la rovina delle loro famiglie numerose, rimaste allo sbando;
è la vita piena di stenti di due bambini diventati poi i miei genitori;
è la povertà della mia famiglia, con mio padre che si alzava quando era ancora buio per andare ai mercati;
è le tante rinunce di mia madre, che usciva col borsellino in mano perchè comprarsi una borsa sarebbe stato un lusso eccessivo.
Gli effetti nefasti delle guerre non finiscono coi trattati di pace.

Battiam , battiam le mani….

Quando eravamo piccini
la nostra maestrina
con la più gran disciplina
tutti faceva filar
lei ci metteva in riga
gridando “fate attenzion”
“adesso marcerete cantando questa canzon”.

Battiam battiam le mani
arriva il direttor
battiam battiam le mani
all’uomo di valor …….

Questo è l’ inizio di una canzone di uno dei primi festival di Sanremo , il che testimonia che anche allora il livello artistico non era sempre elevatissimo, ma le parole dicono bene cosa succedeva nella mia classe quando si aspettava la visita del direttore didattico. Questo evento capitava regolarmente una volta all’ anno e veniva preannunciato.

Ora bisogna sapere che ai miei tempi c’ erano ancora i banchi di legno a due posti col leggio mobile, per consentire di alzarsi e sedersi agevolmente e bisogna anche sapere che quando entravano in classe degli insegnanti o delle autorità si doveva scattare in piedi , mentre i legggii sbattuti di colpo facevano un gran fracasso. Per evitare questo inconveniente , qualcuno in vena di riforme modernizzatrici [:-)] deve aver suggerito di abolire quel saluto un po’ militaresco che ricordava un infausto recentissimo passato ed ecco così che le maestre presero a designare tra gli alunni o le alunne(tra l’ altro vigeva ancora la differenziazione tra classi femminili e maschili) quello che aveva la voce più squillante e stentorea per assegnargli l’ incarico di gridare ” Attenti! “. A quel punto tutti noi dovevamo protendere le braccia fino a toccare con la punta delle dita l’ estremità anteriore del banco , dove c’ era la scanalatura per contenere le cannucce e le matite e atteggiare in modo composto il busto e le gambe (!!!) . In quella posizione si restava fino al comando di “Riposo!” della maestra. Era certo un bel passo avanti: niente sbattimenti di leggii, niente rumore!!!

Così quando si veniva a sapere che sarebbe arrivato il direttore, la maestra ci faceva fare le prove di come dovevamo comportarci per salutarlo . Una di noi (era una classe femminile) usciva dalla porta, aspettava un po’ e bussava. La maestra rispondeva “Avanti” e la bambina che interpretava l’ ambito ruolo del direttore entrava , trattenendo a stento un sorriso di soddisfazione e in quel momento l’ Alda, che aveva la voce più squillante, gridava il suo comando.La maestra allora passava tra i banchi a controllare che tutti avessero assunto la posizione più corretta. Non mancava poi di raccomandarci una particolare igiene delle unghie e una cura più attenta della pulizia del grembiule e dei nastrini bianchi che dovevamo avere tra i capelli. Quando arrivava il giorno fatidico, c’ era sempre la maestra della classe accanto che veniva ad avvisare, facendo un cenno dalla porta appena socchiusa.

La mia insegnante cominciava ad agitarsi visibilmente e noi restavamo in attesa in perfetto silenzio finchè arrivava il “toc toc” che faceva esplodere l’ “Attenti!!” dell’ Alda e tutte le nostre braccia scattavanoo all’ unisono; io ricordo ancora che al vedere quell’ uomo non troppo alto, ma con grossi baffi ispidi e capelli crespi e grigi, mi sentivo un certo tremolio allo stomaco e notavo che le guance della mia maestra diventavano rosse rosse, come succedeva sempre quando c’ era in visita un’ autorità.

P.S. Quel direttore di cui non ricordo il nome, sembrava uscito da uno di dei disegni che illustrano il “Giornalino di Gian Burrasca”

La trebbiatura

Riporto da ELDAS questo ricordo d’ infanzia.
g-luglio-bram-trebbiatura-52-ingr-k

Pochi giorni dopo la fine della mietitura, succedeva che una mattina, all’alba, il borgo veniva svegliato dallo sferragliare della trebbiatrice. Allora mi alzavo e andavo di corsa alla vicina fattoria.
Ogni volta quella enorme macchina che riempiva l’aia, mi incantava: mi sembrava un grande drago meccanico, somigliante a quello raffigurato nelle immagini di S: Giorgio, solo che non sputava fuoco, ma ingoiava i covoni che un addetto, tutto imbacuccato come se fosse inverno, lanciava nel suo inghiottitoio.
Attorno, in mezzo a un frastuono assordante, si affaccendavano parecchie persone, che andavano avanti e indietro avvolte da una nuvola di polvere e di pula, che il gran caldo faceva appiccicare alla pelle umida di sudore. Una di quelle persone era addetta all’imballaggio della paglia e un’altra ancora raccoglieva il grano che veniva ammucchiato sull’aia, là dove era pavimentata proprio per accogliere il raccolto.

Nei giorni successivi il grano veniva steso, perchè asciugasse al sole e noi bambini venivamo incaricati di fare la guardia perchè i passeri non facessero troppa festa, così ci appostavamo in un angoletto in ombra, pronti a sbucare fuori schiamazzando appena qualche passero si posava goloso a rimpinzarsi il gozzo.
Dovevamo anche rimescolare di tanto in tanto il grano perchè si asciugasse uniformemente, allora strascicando i piedi nudi in quella distesa dorata tracciavamo dei solchi concentrici , o meglio una grande enorme spirale , sotto il sole cocente.
La luce era abbagliante, il grano era caldo e i chicchi ti facevano un lieve solletico scivolando tra le dita.
A sera i contadini con grosse pale di legno ammucchiavano di nuovo il grano per poterlo coprire e ripararlo così dall’ umidità della notte, ma l’ indomani il rito dell’ essiccazione si sarebbe ripetuto fino a che il grano fosse stato pronto per attendere la molitura.

Essere nonna.

Non ho mai conosciuto i miei nonni (maschi) , entrambi portati via dalla spagnola; ho conosciuto però le mie nonne.
Una, nonna Carolina, viveva nel paese vicino al mio e me la ricordo solo nel momento in cui , già molto anziana , è venuta per un periodo in casa nostra : ricordo solo che allora verso sera l’ accompagnavo sulla strada a passeggiare un po’, ma la sua scomparsa non mi ha colpito molto: i nostri rapporti erano stati radi e poco profondi.

L’ altra, la nonna Marcellina, abitava accanto a noi, ma era sempre molto preoccupata per tanti problemi e per quel suo gran mal di testa che spesso le faceva dire :- So che morirò presto….- Poi quel suo mal di testa sfociò in un ictus, cui sopravvisse in condizioni gravemente menomate e allora di lei ricordo le volte in cui si soffermava davanti allo specchio per salutare quella signora così gentile che vi vedeva riflessa.
Mia madre l’ ha accudita per 15 anni e capitava anche a me di aiutarla a vestirsi o a pettinarsi e ricordo quando di notte (dormivamo nella stessa stanza) venivo svegliata dalle sue mani che cercavano l’ interruttore della luce e dal suo ansimare faticoso.

Di entrambe però non ricordo gesti di particolare affetto (da noi le smancerie erano ritenute poco dignitose), o momenti particolarmente significativi, forse perchè avevano molti nipoti e sarebbe stato molto arduo coccolarli tutti.

Da molti giorni ho qui con me Davide ed Elisa e spero che portino con sè il ricordo di momenti sereni, di giorni passati facendoci compagnia e cercando di imparare sempre qualcosa di nuovo. Vorrei essere ricordata non solo come nonna biologica, ma come nonna che ha riempito qualche attimo della loro esistenza.

Col caldo , stirare è un incubo, ma una volta era anche peggio..

L’ altra notte il caldo mi ha fatto risvegliare nel cuore della notte (erano le due) con la sensazione precisa che non sarei riuscita a riaddormentarmi tanto facilmente e così dopo un po’ mi sono alzata, sono scesa al piano terra notevolmente più fresco e ho notato che una montagna di panni da stirare cercava insistentemente di attirare la mia attenzione.
Stirare di questi tempi, col caldo che fa, è proprio un brutto mestiere, perciò cosa c’ è di meglio che stirare di notte….
Ho riempito la caldaietta del ferro e in un paio d’ ore ho rimesso in ordine tutto quanto c’ era in giro. Mentre stiravo pensavo che ora tutto è così semplice: basta inserire una spina ….in altri tempi non era così.

Mia madre, quando ero piccola io, usava un ferro a carbone proprio come quello della foto.

Prendeva delle braci dalla stufa, accesa anche d’ estate per poter cucinare, aggiungeva della carbonella fino a riempire il ferro e lo agitava a mo’ di pendolo affinchè la ventilazione che si produceva all’ interno dell’ attrezzo facesse avvampare tutta la carbonella e a quel punto si poteva cominciare a stirare. Anch’ io mi cimentavo a volte in questo lavoro e mi dedicavo alla stiratura dei fazzoletti da naso che la mamma aveva già ben sistemato l’ uno sull’ altro :stirando il primo, anche quello sottostante era già pronto per essere ripiegato .
Le cose più complicate naturalmente venivano stirate dalla mamma, che utilizzava anche uno spruzzatore per inumidire le pieghe più persistenti. Non era raro però che la carbonella sprizzasse scintille dai fori del ferro e allora poteva anche capitare che si verificasse qualche piccola bruciatura sul tessuto sottostante. A volte anche la cenere cadeva sui vestiti da stirare e se non si stava attente si rischiava di dover rilavare l’ indumento.

Quando la carbonella si esauriva, bisognava rifornire di nuovo il ferro e ripetere l’ operazione di accensione della carbonella stessa. Il tutto richiedeva tempo e fatica….

Pensavo a tutto questo nel silenzio della notte e ringraziavo la tecnologia moderna che ha reso meno pesante anche questa parte del lavoro delle casalinghe.

La mattina dopo , appena ho aperto gli occhi, ho pensato con grande soddisfazione che poteva anche far caldo , caldissimo , tanto non dovevo più pensare a stirare.