Sorellitudine.

Da quanto tempo non passavamo una giornata insieme, non so…. L’ occasione ci si è offerta nei giorni scorsi: sono stata ospite da mia sorella per due giorni.
La differenza di età ci ha impedito da piccole di dividere giochi ed esperienze e quando io ero appena una ragazzina , lei si è sposata e i suoi problemi sono stati sempre molto diversi da quelli che vivevo io. Poi la vita mi ha portata via dal paese e da allora solo qualche incontro fugace con due eccezioni in occasione di miei guai di salute.
Abbiamo avuto ognuna la propria parte di tribolazioni: le mie non erano certo paragonabili alle sue, ma ugualmente mi hanno impedito di poterle essere vicina nei momenti più bui. Solo il telefono ci consentiva di capire i nostri stati d’ animo più con le parole non dette che con quelle espresse con un filo di voce, spesso incrinata dalla paura.

Ritrovandola dopo tanto tempo, ho potuto nuovamente apprezzarne le doti di ottima cuoca, l’ abilità nell’ arte del cucito, la sensibilità, la generosità, la forza di carattere sostenuta da una fede ammirevole e l’ affetto di cui mi ha saputo circondare.

Forse solo ad una certa età si sa apprezzare veramente il fatto di avere sorelle e fratelli, persone su cui puoi contare sempre.

Tornare bambini.

In attesa che due vecchie amiche si scambino saluti e convenevoli all’ interno del convento, io e mio fratello (più vicino agli ottanta che ai settanta) andiamo a sgranchirci le gambe e a prendere un caffè. Capriate non offre mete particolarmente famose verso cui andare, quindi avvistata un’ edicola ci avviamo a comprare il giornale ( a proposito: com’ è che uno va a comprare un quotidiano e si ritrova con due chili di carta tra le mani?).

Dietro l’ edicola un minuscolo angolo verde con due panchine: ecco il posto giusto per leggere il giornale . Appena seduti, mio fratello esclama : – Quanti fischietti! (in dialetto: – Ma quant sciflèn!)- Subito non capisco poi lo vedo guardare a terra: l’ albero che ci regala la sua ombra è una grande quercia e il terreno ai nostri piedi è tappezzato di ghiande. Lui prende il “cappuccio” di una di esse, se lo sistema tra l’ indice e il medio e poi soffiando sulle nocche produce, con mia grande sorpresa,  un fischio acutissimo. E’ una reminiscenza della sua infanzia ormai lontana, un gioco a me del tutto sconosciuto. La cosa però è molto interessante, visto anche che dobbiamo riempire un po’ di tempo e non c’ è alle viste niente di meglio.  Anch’ io provo a imitarlo, ma non è così facile: ci vuole una ghianda  nè troppo piccola nè troppo grande, bisogna posizionare alla perfezione lo “strumento ” tra le dita e fischiare con forza e con l’ inclinazione giusta. I miei tentativi falliscono miseramentei, devo confessarlo: “per fare certe cose, ci vuole orecchio” dice Jannacci. Io tuttavia a mia volta gli mostrocome si ottiene un perfetto ” chicchirichì” con uno stelo d’ erba teso tra i due pollici… insomma è  un bel momento…. di ritorno all’ infanzia.

Posso solo  immaginare quello che  pensano i non rari passanti vedendo due “monelli” coi capelli bianchi divertirsi con passatempi ormai dimenticati…. nel migliore dei casi certo qualcuno, molto benevolo,  penserà che ” è proprio vero che invecchiando si torna bambini “. Lascio immaginare (con preghiera di essere moderati)  ai miei lettori quello che possono dire i più malevoli…  :-))

Dedicato a Vanna…

Ripubblico qui , con qualche adattamento , un post scritto qualche tempo fa,  in occasione dell’ anniversario dell’ entrata in convento di mia sorella.

Cinquantuno  anni fa, l’ 8 settembre 1960, una bella ragazza di diciassette anni nata in un paesino dell’Emilia, entrava nel convento delle Clarisse Cappuccine di Carpi.
Era una scelta che aveva gettato nello sconforto soprattutto  la sua mamma, che pensava di perdere per sempre una figlia, che sarebbe stata per sempre come “sepolta viva”.
Anche in paese la cosa aveva suscitato grande scalpore, perchè suora sì, si sentiva dire ogni tanto, allora, che qualche ragazza faceva questa scelta, ma per occuparsi degli orfani, degli ammalati, degli anziani o degli handicappati, ma la clausura era un’ altra cosa.Eppure quella ragazzina era stata irremovibile e alla fine, dopo un lungo braccio di ferro coi genitori, l’aveva spuntata ed ebbe il permesso di seguire la sua vocazione.
Quella ragazzina era ed è mia sorella; otto anni dopo, se ne andò inThailandia per aiutare alcune consorelle e presto divenne una figura importante, perchè le comunità aumentavano velocemente di numero ed era lei a coordinare tutte le attività e a progettare i nuovi conventi.
Ancora oggi si trova là in una terra che ormai ama come la sua terra e fra giovani suore che la amano come una madre amorosa. E, incontrandola, vedi una donna pienamente felice e serena, che sa di aver  seguito la sua strada con coerenza, senza sbandamenti , lasciando un’ampia impronta di sè al suo passaggio.
So che ogni tanto si collega a questo blog, per questo scrivo queste poche righe: per dirle che ho sempre ammirato la sua scelta coraggiosa e la sua determinazione, anche se, quando se ne andò via da casa, io mi sentii più sola.
Auguri, Vanna!

La Modenese.

Un’ estate di quasi mezzo secolo fa, andai a fare l’ educatrice in una colonia marina nei dintorni di Riccione, chiamata “La Modenese” .  Costruite nel ventennio fascista per ospitare i figli dei contadini e degli operai, le colonie apparivano come enormi casermoni costruiti sulla spiaggia, in grado di ospitare molte centinaia di bambini  contemporaneamente.

A ogni educatrice veniva  affidata una squadra di 30 bambini dai sei ai 12 anni e ogni camerata ospitava ben due squadre, perciò in ogni stanzone ci si dormiva in sessantadue (comprese le due educatrici). Tutto funzionava secondo schemi e ritmi militari : ricordo le adunate sulla spiaggia per la ginnastica o per vari giochi sotto la guida del capo-colonia (lo chiamo così perchè non ricordo bene la sua qualifica ); ricordo il momento del bagno in mare : in un tratto  ben delimitato si tuffava questa massa enorme di bambini che sguazzavano, mentre noi educatrici li sorvegliavamo e poi tutti sotto l’ ombra delle pensiline a giocare con la sabbia, in attesa del rientro in camerata per prepararsi per il pranzo.

L’ organizzazione era perfetta : c’ erano i turni per il pranzo, i turni per i riposi settimanali, i turni per le docce … tutto come  in una enorme catena di montaggio. Ero partita in compagnia di una mia cara amica, che però non resse  a lungo la fatica e tornò a casa dopo pochi giorni. Io rimasi per tutto il mese come previsto al momento dell’ ingaggio, ma fu un’ esperienza che non desiderai più ripetere e  poco tempo dopo anche le colonie marine furono abbandonate.

Non scorderò mai l’ insalata semovente nel piatto: sotto la lattuga era rimasta intrappolata una grossa lumaca …. ed è inutile dire l’ effetto che mi fece vederla aggirarsi lentamente tra una foglia e l’ altra !!!

Non scorderò mai nemmeno il momento della partenza alla fine della vacanza: tutti  i bambini divisi per squadre e allineati sul marciapiede formavano un serpentone lunghissimo, che procedeva ordinatamente verso la stazione ferroviaria ; ad un fischio del capo tutti  ci fermammo  e ci voltammo verso la sede stradale completamente libera perchè il traffico era stato bloccato ; dopo pochi secondi un altro fischio diede il segnale : si doveva attraversare la strada e in un attimo quel lungo serpente si spostò di corsa sul marciapiede opposto e arrivò così al treno che ci avrebbe ricondotti tutti  a casa .

Fra i trenta bambini  che mi erano stati  affidati , ricordo solo Carla, la più piccola del gruppo. Aveva due occhioni grandissimi , di cui uno leggermente strabico, e portava lenti molto spesse; magrolina e bruna di pelle, aveva sempre  bisogno di essere aiutata,  mi si aggrappava per essere presa in braccio e mi ringraziava con i suoi bacetti umidicci.

Per chi volesse saperne di più sulle colonie può seguire questo link : http://www.imss.fi.it/espo/ssunder18/colonie_apuano.pdf

2 Agosto.

Sono l’ ultima di cinque figli e, quando sono nata io, certo mia madre non ha mai avuto molte possibilità di coccolarmi, per questo forse i miei più remoti ricordi sono legati a mio padre, che rientrato dal lavoro, spesso mi intratteneva a farmi giocare con le carte : mi insegnava a fare il solitario , a giocare a rubamazzetto o a “cheva in pataja”; altre volte ci mettevamo a costruire le case sempre con le carte ed era un bell’ esercizio di controllo della propria manualità , qualche volta invece incastravamo le carte stesse tra di loro formando così dei rozzi piatti.

Ricordo in particolare una sera d’ inverno. Mia madre era impegnatissima a preparare la cena e a rimestare la polenta che bolliva borbottando nel paiolo di rame sulla stufa a legna. Io in braccio a mio padre, gli scarmigliavo i capelli e giocavo afferrandogli  il naso e a un certo punto gli ho detto: – Quando sarò grande io sposerò te….-  Oggi se mio padre fosse ancora vivo compirebbe 105 anni.

Auguri , papà!

I marusticani.

Avevo una compagna di scuola, ai tempi delle medie, che era anche la mia migliore amica. Abitava in una  casa di campagna .  Mi bastava una corsa in bicicletta per andarla a trovare e scambiare quattro chiacchiere.

Nel praticello dietro casa c’ era un grande albero di marusticani , specie di piccole prugne che maturavano alla fine della primavera, ma che io preferivo mangiare ai primi di giugno (mi pare di ricordare), quando erano ancora acerbi .

La loro polpa era croccante e il loro sapore aspro ti faceva venire l’ acquolina in bocca proprio come mangiando una fetta di limone. Ne facevo vere scorpacciate, perchè quei frutti non venivano raccolti per essere venduti, ma venivano offerti a chiunque volesse andare a coglierli. Io me ne mettevo in grembo una bella manciata e li sgranocchiavo con enorme piacere mentre, seduta sul praticello  sotto l’albero, chiacchieravo  con la mia amica  , scambiando con lei confidenze e piccoli segreti .

Da troppo tempo non mangio più marusticani; da troppo tempo non rivedo più quell’ amica….

In via Villabianca.

Da piccola abitavo in una casa molto vecchia, che sorgeva in una via lontana dal centro del paese e con un nome molto pomposo : via Villabianca . Ricordo che, dove si scrostava l’ intonaco,  apparivano dei pezzetti di paglia nell’ impasto che univa i mattoni.

Essa era divisa in due

dalla scala che portava al primo piano . Ci abitavamo noi (cinque figli più genitori) e un’ altra famiglia (due figli più genitori). La stranezza è però che noi avevamo le stanze da letto sopra alla cucina dei vicini e loro le avevano sopra la nostra : penso che il motivo fosse sia perchè così noi potevamo usufruire di una piccola stanza in più , sia perchè in questo modo si  divideva in modo più equo l’ esposizione al sole, già scarsa perchè la casa era orientata verso nord  ( la parte a mezzogiorno apparteneva a un’ altra famiglia).

Al secondo piano c’ era la soffitta (che noi chiamavamo tassellmort), dove si accumulavano via via le cose che non si usavano più ,  dove si sistemava la legna per l’ inverno e dove io mi avventuravo qualche volta per gioco, ma sempre col batticuore. I pavimenti in mattoni erano molto consumati e i gradini delle scale erano stati incavati dal passaggio di chissà quanti piedi nel corso del tempo.  Non c’ era acqua corrente , ma solo un pozzo artesiano in fondo al cortile.

I nostri vicini erano brave persone, ma non nuotavano nell’ oro , proprio come noi,  e le difficoltà  spesso facevano sorgere discussioni . Quando però c’ era  silenzio , mia madre, forse un po’ maliziosamente ironica commentava : – Certo staranno leggendo il giornale del partito !!- Una volta, per curiosità mi sono proprio avvicinata alla loro porta e, devo confessarlo, sono stata lì ad origliare per qualche minuto: era proprio vero !!!  Una voce leggeva il giornale e gli altri stavano ad ascoltare in religioso silenzio….

Erano infatti i tempi ben descritti da Guareschi con i personaggi di don Camillo e di Peppone e i nostri vicini avevano sul camino, là dove mia madre teneva il crocifisso , le foto di Stalin e di Lenin. Questo però non comprometteva affatto i buoni rapporti di vicinato  e si era sempre pronti a darsi una mano per portare a termine le operazioni più faticose, come sistemare in soffitta la provvista di  legna  per l’ inverno o fare il bucato grosso.

Ricordo che nelle sere d’ inverno ci si riuniva dopo cena in filoss (conversazione) o per giocare a carte ; e in estate invece ci si sedeva fuori accanto al portone a sentire i racconti dei grandi e i commenti alle notizie della radio, mentre si combatteva strenuamente contro l’ assalto delle zanzare, in attesa che la notte portasse un po’ di frescura nelle stanze e si potesse così prender sonno.

Quei lontani lunedì mattina….

La domenica mia madre e mio padre si concedevano, ognuno a suo modo, qualche diversivo.
Mio padre nel  tardo pomeriggio si recava all’ osteria  per giocare a carte con gli amici .
Mia madre si concedeva qualche ora di riposo: a volte faceva una breve siesta , poi si metteva a leggere qualche giornale preso in parrocchia la mattina, all’ uscita dalla chiesa.
Ricordo che mi pareva strano vedere mia madre concedersi  questi momenti di pausa domenicali, perchè negli altri giorni era sempre indaffaratissima : cinque figli da accudire senza aiuti esterni non erano uno scherzo! La sera poi, siccome mio padre non rientrava ,  non si metteva a cucinare una vera e propria cena, ma ci preparava un budino o ci faceva lo  gnocco fritto, una specie di piadina , anche perchè il pranzo della domenica era sempre più abbondante di quelli ai quali eravamo abituati e nessuno la sera aveva molta fame.

Il lunedì mattina, che in genere è per tutti un po’ triste perchè segna l’ inizio del faticoso tran tran quotidiano, per me invece era un momento magico.
Mia madre ci svegliava un po’ prima del solito e il mio primo sguardo volava verso il lavabo che stava vicino alla finestra: c’ era ogni lunedì un mucchietto di caramelle o cioccolatini luccicanti per la stagnola che li avvolgeva.  Papà diceva sempre  di averli vinti giocando a carte, anche se forse qualche volta  li aveva semplicemente comprati.

L’ idea che la sorte benigna si fosse ricordata di noi anche quella volta mi riempiva di ottimismo e me ne andavo a scuola portando con me una parte di quel piccolo dolcissimo tesoro, che cercavo di far durare il più a lungo possibile: fino al lunedì successivo non sarebbe arrivata nessun’ altra ghiottoneria.