Giornata del ricordo.

Oggi è la giornata del ricordo in onore dei tanti italiani morti nelle foibe. E’ stato quello un momento di storia a lungo ignorato e di cui nemmeno i sopravvissuti forse amavano parlare fino a poco tempo fa. Io ho conosciuto due carissime ex colleghe profughe giuliane: una al mio primo anno di insegnamento sull’ Appennino Reggiano e l’ altra qui in Brianza.

La prima si chiamava Marcella (a quest’ ora sarà molto anziana, ma ho perso le sue tracce da tempo). Era una signora molto dolce, che da ragazzina era fuggita con la famiglia dall’ Istria per giungere sull’ Appennino, dove aveva poi trovato anche lavoro e si era formata una famiglia . Ricordo i suoi consigli e i suoi incoraggiamenti ; io avevo da poco vinto il concorso , ma avevo pochissima esperienza didattica: ero un po’ spaesata e timorosa di combinare pasticci e lei mi ha sostenuto in quella prima esperienza.

La seconda si chiamava Marisa ed è scomparsa, ancora giovane, qualche anno fa. Con lei ho lavorato a lungo, riuscendo a collaborare per realizzare attività diverse in varie circostanze . Ma più di tutto la ricordo perchè insieme abbiamo affrontato una sperimentazione per l’ inserimento di bambini con handicap, che ci attirò le invettive di molti. Fu un’ esperienza coinvolgente ed interessante.

Solo Marisa raccontava qualche volta le peripezie della sua fuga da Zara, ma certo lei a quell’ epoca era molto piccola e  forse nessuno aveva voluto parlarle delle foibe, cui non accennò mai. Raccontava come avessero dovuto lasciare una casa signorile e una situazione di agiatezza e come suo padre era riuscito a salvare ben poco dei loro beni, buona parte dei quali era  forse servita (ora posso supporlo) a salvare la propria famiglia da una sorte terribile.

Oggi mi pare la giornata giusta per dire  grazie a Marcella e a Marisa e per rinnovare il ricordo di atrocità che non dovranno più ripetersi.

 

Cantare insieme in libertà…(lasciando andar la voce dove va..)

Quando ancora ero alle superiori, in estate sono andata più volte a fare da educatrice /assistente a bambini e adolescenti in montagna. Erano gruppi organizzati dalla diocesi in modo molto semplice e informale.

Diquelle esperienze ricordo con gran piacere il senso di benessere che mi dava l’ aria di montagna, la bellezza  e l’ incanto dei paesaggi, sia che fossero prati verdi dove l’ erba ondeggiava ad ogni soffio di vento, sia che fossero orizzonti sconfinati limitati da “cime ineguali” splendenti di neve; tutto questo era reso ancora più piacevole dall’  atmosfera di amicizia che si stabiliva sia tra gli adulti sia tra adulti e ragazzi.

La sera , quando i ragazzi erano ormai addormentati nelle camere,  noi educatrici ci riunivamo per prendere accordi sulle attività del giorno successivo e alla fine c’ era sempre chi proponeva : – Facciamo una cantatina?- Allora si intonava un canto di montagna,  o di lavoro o canti folkloristici. Questo serviva moltissimo a cementare l’ amicizia all’ interno del gruppo, a sentirsi “comunità”.

Il giorno seguente gli stessi canti accompagnavano le nostre escursioni o le soste nei rifugi al calore di un camino acceso.

Da allora la passione per il canto corale mi ha accompagnato sempre e mi ha indotto a far parte di una corale prima  e poi a riservare sempre al canto qualche momento  anche nell’ orario settimanale della programmazione per le mie classi.

Uniformare la propria voce a quella dei compagni e esprimere insieme la stessa emozione contribuisce molto a suscitare e rafforzare lo spirito di gruppo  e crea un senso di appartenenza che dà sicurezza .

Il telaio.

C’ era una famiglia di agricoltori vicino a noi , che abitava in una casa che allora a me pareva quasi di lusso, infatti entrando ci si trovava in un ingresso ben pavimentato con mattoni rossi levigati e da lì si accedeva in un locale  ampio (a me che ero piccola sembrava vastissimo) dove si trovava una grossa stufa a legna e davanti a questa troneggiava un tavolo lunghissimo che certo in altri tempi aveva dovuto accogliere una famiglia patriarcale ben più numerosa di quella che io conoscevo. Da lì si arrivava a un altro locale dove mi pare ci fosse un lavandino con tante pentole di rame appese alla parete e poco discosto c’ era un grosso e rozzo telaio, che doveva avere una lunghissima storia alle sue spalle. Arrivava fin quasi al soffitto ed era talmente complesso, almeno per me, che quando vedevo la Dina (la padrona di casa) all’ opera ( nei mesi invernali) su quel marchingegno mi pareva impossibile che una persona sola potesse manovrare quella macchina enorme.

Un inverno mia madre chiese alla vicina di prestarle il telaio: probabilmente la nonna era riuscita a preparare molto filato e mia madre intendeva rinnovare la biancheria senza appesantire ulteriormente il conto sempre aperto al negozio di tessuti del paese. Una volta montato in casa nostra, quel telaio occupò buona parte del locale che fungeva sia da cucina che da soggiorno.

I fili dell’ ordito si alzavano e si abbassavano intrecciandosi sotto l’ azione di un pedale, mentre le mani di mia madre facevano scorrere velocemente la spola da un capo all’ altro e subito dopo tiravano con forza il pettine che doveva compattare l’ intreccio dei fili. Il tutto avveniva tra lo stridore dei pedali e il battere ritmico del pettine. Lentamente il tessuto cresceva e veniva arrotolato via via su un rullo, che stava nella parte inferiore del telaio.

Ricordo che mi piaceva molto stare a guardare la mamma al lavoro e vedere che il rotolo del tessuto si ingrossava a poco a poco. Alla fine erano state preparate lenzuola a una e a due piazze , che risultarono piuttosto spesse e anche molto ruvide: quando ci si coricava sopra , sembrava di essere su  una grattugia  e subito si provava un certo fastidio, ma poi a poco a poco ci si abituava e quel  massaggio che il tessuto grezzo esercitava sul corpo diventava quasi piacevole e sicuramente anche benefico .

La stufa a legna.

stufa a legnaEra nell’ angolo opposto al caminetto e, nello spazio che la separava dal muro esterno, veniva riposta la legna: ceppi spaccati con la scure  e stecchi sottili  che si andavano a raccogliere in campagna dopo la potatura o quando veniva abbattuto qualche albero e se ne facevano fascine.
Il piano superiore era in ferro e presentava tre gruppi di cerchi concentrici che venivano tolti per regolare la larghezza del “contatto” col fuoco vivo a seconda della dimensione della pentola.
Sulla facciata anteriore si apriva lo sportello che chiudeva il vano-fornace, sotto c’era uno sportello più piccolo attraverso il quale veniva estratta la cenere e di fianco si apriva il forno.
Nella parte più bassa c’era un vano vuoto in cui mia madre a volte metteva anche le pantofole perchè si scaldassero.
Di fianco al piano cottura c’era un contenitore in rame sempre pieno d’ acqua calda,  pronta per tutte le necessità.
Il tubo di scarico, che attraversava buona parte della stanza per ottimizzare la resa della stufa, presentava ad altezza d’uomo (ma sarebbe meglio dire ad altezza di donna) un anello di ferro munito di tanti raggi che potevano essere alzati o abbassati : su di essi venivano appesi mestoli e schiumarole o i panni  da asciugare quando fuori pioveva .
Sul piano cottura arrostivamo le castagne o le fette di polenta avanzata dal giorno prima e nel forno ogni mattina la mamma  (che si alzava prestissimo per accendere il fuoco) metteva l’uovo che dovevamo sorbirci prima di andare a scuola o le mele da cuocere: non sono più riuscita a mangiare mele cotte buone come quelle.

Solo la cucina veniva riscaldata. Le stanze da letto erano molto fredde e così anche le coperte del letto, perciò ecco che dalla stufa, verso sera si estraeva la brace. Con essa si riempivano dei piccoli contenitori (padlèni) foderati di cenere , che venivano inseriti nel prét (una struttura in legno adatta a sollevare le coperte , che non dovevano venire a contatto con le braci.
Quando si tornava a casa coi piedi intirizziti dal freddo, la mamma ci faceva togliere le scarpe e ci faceva appoggiare i piedi sullo sportello più basso e al tepore che ne usciva ti sentivi rinascere.

Un balilla ribelle.

Nonno Pippo racconta:

Ero alle elementari . Al sabato pomeriggio, quando sarebbe stato così bello poter giocare tranquilli, c’ era invece da assolvere a un altro impegno: le adunate dei “balilla ” nella piazza  principale della città. Era un appuntamento obbligato , infatti l’ eventuale assenza sarebbe stata segnalata al maestro che avrebbe provveduto all’ ammonizione.

Mi era poi particolarmente insopportabile dover  indossare  la camicia nera, i pantaloni corti color grigio verde e il fazzoletto azzurro al collo. Ogni capo era stato lavato e stirato con cura per farmi fare bella figura là, nella piazza, ma per me tutta quella messinscena  aveva il sapore assurdo  dell’ imposizione senza senso.

Una volta , dopo essermi incamminato,  incontrai il solito gruppetto di ragazzini del vicinato; facevamo sempre la strada insieme scherzando e ridendo e, magari anche un po’ mugugnando contro quell’ obbligo dell’ adunata. Quel giorno però, uno di loro aveva portato una palla di carta e ogni tanto faceva qualche palleggio : fu così che cominciammo a fare qualche passaggio, qualche tiro, qualche parata . Non c’ erano macchine in circolazione, perciò non c’ era pericolo e ogni angolo di strada poteva all’ occasione diventare un campo di calcio.  Il sole era alto e il caldo soffocante; correndo, dribblando, crossando , ogni tanto ci scappava qualche scivolata e qualche tuffo acrobatico e alla fine del percorso eravamo sudati, impolverati e la divisa era irriconoscibile.

Ad attenderci in piazza c’ era l’ avanguardista incaricato di gestire l’ adunata dei balilla ; vedendoci arrivare in quello stato pietoso cominciò a rimproverarci urlandoci in faccia che  la divisa era sporca e in disordine;non era quello il modo di presentarsi all’ adunata !!! I miei amici incassarono il rimprovero a testa bassa , ma io  (ribelle per natura ) feci capire a quel giovanotto  che non mi aveva spaventato per nulla. Questi allora , ancor più irritato dal mio atteggiamento, riprese minacciando di raccontare tutto a mio padre e al mio maestro e fu a questo punto che mi scappò un “Vaffa…” , mentre i balilla schierati sotto il sole assistevano sbalorditi al battibecco.

Raccontando…

I racconti di nonno Pippo:

Mia madre aveva eliminato una gonna in tessuto pied-de-poule, che le era venuta stretta o che non le piaceva più, ma visto che i tempi consigliavano un uso oculato delle scarse risorse di famiglia, le venne l’ idea di ricavare da quella stoffa un paio di pantaloncini per me. Si mise al lavoro e in poco tempo i pantaloncini furono pronti. Fu così che , dovendo uscire , mi mise su una sedia per cambiarmi, (dovevo avere  4 o 5 anni) ma quando io vidi che voleva farmi indossare dei pantaloni ricavati da una gonna, mi ribellai :” Cosa da fìmmine è!!!” Mia madre non voleva sentire ragioni e più io strillavo, più lei si invcaponiva, più io mi divincolavo, più lei si convinceva che ci volevano le maniere forti e mi sculacciò fino a che mi arresi….

Certo fu per il ripetersi di episodi come questo che un giorno scappai di casa e mi allontanai parecchio dal mio quartiere. Una signora a un certo punto si accorse  di quel bimbo piccolo che se ne andava tutto solo e mi prese per mano…fece avvisare le guardie municipali che già erano state allertate e mi riportarono  a casa. E fu certo per sfuggire alle proibizioni di mia madre che un giorno la chiusi in cucina (la cui porta poteva essere chiusa dall’esterno) , presi una sedia , la accostai al comò su cui c’ erano i profumi e le creme di mia madre ( così io credevo), presi una boccetta e me la versai in testa. Dopo pochi istanti un liquido vischioso, biancastro e maleodorante  cominciò a colarmi sugli occhi facendomi impazzire dal bruciore. Cominciai a gridare, ma mia madre non poteva uscire dalla cucina e a sua volta si mise a gridare chiedendo aiuto. Acoorsero le vicine, che aprirono la porta della cucina e finalmente fui ripulito: quello che avevo scambiato per un profumo era invece il sidol, il prodotto per pulire il rame!!! Naturalmente anche quella volta finii col prendermi una bella (e meritata) sculacciata.

Sere d’ inverno…senza TV.

Quando le ore di luce si accorciano sempre più, le serate sembrano interminabili ; così è in questi giorni e così era tanti anni fa quando ancora non c’ era la tv a far compagnia alla gente.

Ricordo (ero molto piccola),  che ci si ritrovava  nell’ unico locale riscaldato che faceva da cucina e da soggiorno : mia madre indaffaratissima come sempre a preparare gli scaldini (il padléni) da mettere nei “pret”, per intiepidire le lenzuola e le coperte, e a cuocere contemporaneamente la polenta sulla stufa a legna.

Intanto io, che ero la più piccola, potevo permettermi il lusso di tiranneggiare un po’ mio padre, stando sulle sue ginocchia, mentre lui faceva un  solitario a cui io collaboravo sistemando le carte che via via “si liberavano” e questo mi permetteva di imparare a riconoscerle e a metterle in ordine crescente. A volte si univa a noi anche mia sorella, la penultima e allora giocavamo a “rubamazzetto”, all’ “asino” , a “cheva in pataja” ;  quest’ ultimo era particolarmente emozionante per i continui capovolgimenti delle sorti del gioco. Il borbottìo della pentola fumante faceva da sottofondo rassicurante

A volte , dopo cena, venivano i vicini (ricordo Baiòc e Giubèn) e allora i grandi giocavano a briscola, a scopa, a scopone o altri giochi più complessi che non ho mai imparato. Io  stavo incollata a mio padre, sulle sue ginocchia per tutto il tempo, fino a che non mi si chiudevano gli occhi .
Dovevo però stare attenta a seguire alcune raccomandazioni : non dovevo parlare delle carte che lui aveva in mano, né tanto meno mostrare reazioni di gioia o di delusione quando avesse pescato carte importanti o sfortunate. Questo mi faceva sentire partecipe del gioco, che seguivo con molta attenzione. E’ incredibile quante cose si possano imparare, quasi senza accorgersene, col gioco delle carte, soprattutto nell’ ambito matematico.

In particolare però io ero affascinata dai segni impercettibili che i giocatori si scambiavano col partner per indirizzarne il gioco o per segnalare una difficoltà: erano strizzatine d’occhio, alzate di spalle, labbra che si imbronciavano o che venivano appena appena inumidite con la lingua, sopracciglia che si inarcavano per un istante. Erano elementi di un codice per me misterioso, che a poco a poco imparai a decifrare con mia grande soddisfazione.
Il gioco si svolgeva tra una battuta scherzosa e uno “sfottò” bonario e non mancavano accenni ai fatti accaduti durante il giorno; alla fine nessuno aveva vinto niente, né tanto meno perso niente : a tutti era bastato stare piacevolmente in compagnia.
Quando non c’ erano i vicini,  si accendeva la radio per ascoltare un po’ di musica o qualche trasmissione radiofonica:  molto seguito era allora  “Il rosso e il nero” , lo spettacolo  condotto dalla voce calda e amichevolmente sorniona di Corrado. Protagonisti di queste serate erano comici come Enrico Luzi, Alberto Talegalli, Tino Scotti , nomi allora molto conosciuti.
Per le dieci o poco più però la serata terminava: l’indomani tutti dovevamo alzarci molto, molto presto.!

Dormire in un abbraccio di piume.

Quando la mamma la mattina rifaceva i letti, si sentiva lo stesso rumore di quando in autunno camminavi tra le foglie cadute ai piedi degli alberi.
Infatti sopra al  rigido materasso di crine di cavallo c’ era il pagliericcio: un saccone di tela con un’ apertura al centro, pieno di foglie di granoturco che la mamma, entrando con la mano nel saccone,  risistemava ogni mattina. Anche dormirci sopra era un po’ rumoroso: ad ogni movimento le foglie scricchiolavano, ma erano fresche d’ estate e isolanti in inverno.

Poco dopo il saccone non fu più riempito di foglie, ma di piume di gallina e allora rifare i letti voleva dire sprimacciare per bene il “materasso”( proprio come si fa ora coi cuscini riempiti dello stesso materiale) fino a colmare la nicchia che ti aveva accolto durante la notte.
Sprofondare la sera in quella morbidezza era veramente una delizia, perchè ti sentivi avvolgere come in un abbraccio e potevi rigirarti a piacere senza sentire alcun rumore.
Ogni tanto poi la mamma svuotava il materasso e metteva le piume al sole dentro a un grosso recipiente e allora trovavi qualche piuma vagabonda nei posti più impensati.

Ero già grande quando vennero di moda i materassi a molle: erano più razionali e forse anche più igienici, ma ti accoglievano senza “abbracciarti”