Pantaloncini corti anche d’ inverno.

Aprendo gli occhi la mattina poteva capitare di vedere i vetri delle finestre arabescati da strane forme che il ghiaccio aveva inventato durante la notte,  allora mi rincantuccciavo sotto le coperte per godere ancora per un po’ il loro tepore . Alla fine però bisognava alzarsi e la stanza era talmente fredda che battevo i denti mentre mi rivestivo.  Per fortuna  la cucina era ben riscaldata dalla stufa a legna, accesa da mia madre che era alzata già da un paio d’ ore.

Quando faceva così freddo, andare a scuola a piedi non era molto piacevole: i piedi diventavano in breve dei pezzi di ghiaccio e la nebbia, che era frequentissima, ti si congelava sui capelli che spuntavano dal berretto e formava uno strano,  effimero diadema, che sarebbe scomparso appena entrati in classe. Andavamo a scuola insieme noi bambini dei dintorni e il gruppo si ingrossava lungo il percorso. Chiacchierando e ridendo,  camminavamo di buon passo per riscaldarci un po’, ciononostante i maschietti , che non so per quale motivo portavano i calzoni corti anche d’ inverno, avevano spesso le ginocchia violacee (o come si dice da noi “murèli”).

La sera , prima di cena mia madre preparava “il padléni” , cioè gli scaldini: sul loro fondo coperto di cenere metteva un bel mucchietto di braci prese dalla stufa o dal camino e lo copriva con altra cenere . Ogni “padléna” veniva infilata nel “prete” : un attrezzo di legno che teneva sollevate le coperte del letto e dentro al quale si infilava lo scaldino. Spesso però il calore che proveniva da dentro il letto, faceva sì che sulle coperte si condensasse un velo di umidità. Non era neanche raro il caso che qualcosa andasse storto e che le braci danneggiassero il letto.

Quando la sera veniva l’ ora di andare a dormire, era difficile staccarsi dal calduccio della cucina per tuffarsi nel gelo delle camere e non vedevi l’ ora di cacciarti nel letto caldo .

Ora che basta schiacciare un pulsantino o un interruttore per avere tutto il caldo che si desidera, sembra impossibile che fino a non molto tempo fa il freddo potesse condizionare tanto pesantemente la vita della gente.

Quando una telefonata impegnava un pomeriggio.

– Puoi venire con me a telefonare? – Mi aveva chiesto la mia amica Maria. Certamente non potevo rifiutarle questo piacere. Eravamo agli inizi degli anni sessanta e ci trovavamo in una casa di montagna in Val Camonica, lontano dai centri abitati
Si era alla fine di giugno, ma come capita spesso in montagna, l’estate sembrava scomparsa di colpo: pioggia mista a nevischio e vento gelido ci sferzarono durante tutto il cammino lungo una strada sterrata, che sembrava appesa al fianco della montagna; finalmente vedemmo l’agognata insegna del telefono pubblico accanto a quella di un bar isolato su quella che più che una strada sembrava una mulattiera.
Al nostro ingresso fummo assalite dall’odore di vino e di tabacco, mentre alcune facce di montanari segnate dalle fatiche e dal tempo ci scrutarono stupite; certamente si chiedevano cosa ci facessero  lì due ragazze con quel tempaccio .
Maria non si perse d’animo e si avvicinò al gestore chiedendogli di poter chiamare al telefono la persona che doveva contattare.
Il centralino dopo un po’ ci disse di attendere. E noi attendemmo in un angolo pazientemente.

Il fatto è che il centralino doveva contattare il posto pubblico della località interessata, lì  qualcuno doveva andare a chiamare la persona richiesta, che a sua volta doveva raggiungere il posto telefonico pubblico e dare l’ok . A questo punto la telefonata poteva aver luogo  e se il gestore era dotato di contatore, la telefonata poteva procedere tranquillamente, ma se dovevi inserire i gettoni dovevi stare attento al bip che segnalava la prossima fine del collegamento.
Quando Maria potè telefonare era ormai passato tutto il pomeriggio e rientrammo alla base che faceva quasi buio.

Ai nostri giorni tutto questo sembra appartenere alla preistoria, perciò  io non finirò mai di restare a bocca aperta davanti ai progressi attuali dei mezzi di comunicazione.

Due “put”

Vicino alla casa in cui abitavo da piccola, c’ era un grosso casolare ; lì abitava una famiglia composta da tre fratelli, di cui uno solo era sposato con figli, gli altri due erano scapoli o  “put”, come si dice da noi.

Primo  era leggermente claudicante e camminava aiutandosi con un bastone: forse da piccolo era stato colpito, come tanti bambini a quei tempi, dalla poliomielite. Aveva, nonostante ciò, un portamento elegante e  modi signorili:  sorriso sempre pronto e una parola gentile per tutti noi bambini. Parlava  lentamente e non l’ ho mai visto  arrabbiato, per questo io lo consideravo un uomo molto saggio. Nei momenti liberi si sedeva davanti alla porta di casa col cappello a coprirgli i radi capelli grigi e le mani appoggiate al bastone e salutava tutti quelli che passavano davanti alla casa.

L’altro fratello, di nome Adelmo, era invece tutto l’ opposto:  piuttosto tarchiato, viso abbronzato e modi sanguigni.

Era lui che si dedicava ai lavori più pesanti e spesso, verso sera , in estate ,  lo si sentiva  cantare a squarciagola o richiamare a gran voce la Lola o la Bianchina : allora tutti capivano che stava mungendo le mucche  e tutti sorridevamo divertiti da quell’ allegria chiassosa.

Nelle famiglie patriarcali c’ era sempre qualche figlio o figlia che rinunciava a sposarsi per dedicarsi alla cura dei genitori o delle proprietà della famiglia , che così conservava intatto il suo  patrimonio.

Quando non c’era la lavatrice…..

In fondo al cortile della vecchia casa in cui abitavamo quando ero piccola, c’ era un pozzo artesiano provvisto di carrucola per attingervi l’ acqua col secchio. Mi piaceva sentire il tonfo del recipiente dentro l’acqua dopo la discesa veloce, poi però  la risalita era lenta e faticosa ed era accompagnata dai cigolìi  lamentosi della carrucola e della catena.

C’ era un momento in particolare in cui la carrucola doveva lavorare di più e il secchio continuava ad andare su e giù instancabilmente: quando si dovevano lavare le lenzuola di tutta la famiglia.

Si accendeva il fuoco coi “malgas”, i fusti secchi del mais, in una fornace accanto al pozzo. e si scaldava l’ acqua in un grande paiolo. Nel frattempo si faceva il prelavaggio per  insaponare  le lenzuola e adagiarle nel grande mastello di legno posizionato su un trespolo al centro del cortile. Alla fine venivano cosparse di “lisciva” e  ricoperte con un grande telo bianco su cui veniva versato un consistente strato di cenere. A questo punto si versava sulla cenere l’ acqua bollente del paiolo e si lasciava il bucato in ammollo per alcune ore.

lavare-al-mastelloLa parte più spettacolare però veniva quando la mamma aiutata da una delle mie sorelle o da una vicina, cui sarebbe presto stato ricambiato l’ aiuto, si mettevano a sbattere le lenzuola sulla lunga asse posta trasversalmente al mastello: ognuna prendeva il lenzuolo da un capo e insieme lo alzavano con un sincronismo perfetto per farlo ricadere con forza sull’ asse. Gli spruzzi si spargevano per un largo raggio tutt’ intorno fino a quando si cominciava a ritorcerlo fino a farlo diventare un lungo serpente schiumoso.

Seguivano poi almeno due risciacqui e quindi tutti davano una mano ad attingere o a trasportare i secchi pieni d’ acqua  e alla fine le lenzuola potevano  essere stese ad asciugare nel cortile come grandi vele che profumavano di pulito.

Ricordare ora quei momenti è bello, ma ogni volta che devo fare il bucato mi viene in mente la fatica immane di mia madre e penso: W la lavatrice!!

Ricordando mio padre.

foto-di-famiglia-1995-001Mio padre è nato il 2 agosto 1906 e oggi voglio ricordare il suo compleanno parlando di lui.

A lui sono grata  per le tante volte in cui, da piccola, mi ha tenuto sulle ginocchia mentre faceva qualche solitario con le carte o quando, la sera dopo cena, faceva qualche partita a briscola con i vicini.

In quelle occasioni, spesso , parlando del più e del meno, si arrivava a raccontare episodi della guerra finita da poco e, in tutto il dolore che affiorava da quei racconti, arrivava sempre il punto in cui mio padre e uno dei vicini, per alleggerire un po’ l’atmosfera, parlavano di un episodio da loro vissuto direttamente.
Era l’Aprile del ’45 e per punire non so quale azione di sabotaggio c’era stato un rastrellamento. Mio padre e il nostro vicino, insieme ad altri, erano stati costretti a seguire una pattuglia armata che li portava verso Fabbrico. Mio padre e il vicino dovevano portare insieme anche una cassa molto pesante; mentre camminavano, mio padre sentiva battere contro la sua spalla qualcosa che non gli piaceva e che non lo faceva stare tranquillo: era la canna del mitra di uno degli uomini della pattuglia. Sudava freddo al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere  e quando non ne potè più disse al vicino: – Severino, questa cassa è molto pesante e mi fa tanto male la mano; cosa ne dici di scambiarci di posto?-
A quella richiesta tanto candida, Severino non poteva certo dire di no, ma ben presto ne capì il vero motivo !!!

Fortunatamente di lì a poco arrivò l’ordine di rimandare tutti a casa.
Poi si seppe che quel giorno era stato compiuto l’eccidio della Righetta: la sorte li aveva graziati !

Mio padre raccontava spesso anche un altro episodio, legato al suo daltonismo, che non gli permetteva di distinguere il colore rosso.

Quella mattina, prestissimo, era ancora buio, si era preparato per andare al mercato; aveva chiesto a mia madre una camicia pulita e  se l’era infilata di fretta.  Arrivato a destinazione e sistemata la sua mercanzia, si accorse ben presto di essere fatto segno di un’ attenzione insolita da parte dei frequentatori della piazza: si sentiva un po’ a disagio e non sapeva capacitarsi di quella situazione …. Finalmente un conoscente gli si avvicinò dicendogli : – Catlàn, ma t’a ghè propia un bel curag ….! ! – Mio padre ancora non capiva; chiese perchè mai gli avesse rivolto quelle parole e gli fu risposto che, in un tempo in cui imperversavano le camicie nere, ci voleva un coraggioso o un incosciente a esibirsi pubblicamente in camicia rossa !!!

Mio padre aveva creduto di indossare una camicia verde…

A pesca.

a pesca

I miei fratelli erano molto più grandi di me e non avevamo molte occasioni per fare delle cose insieme.
Ricordo però che tutti e due ogni tanto , in estate, mi portavano a pescare insieme a loro.

Tutto aveva inizio con la ricerca dei lombrichi, che dovevano fare da esca; si andava con la vanga nell’ orto o sulle rive di un fossatello vicino a casa.
Ricordo ora con un certo ribrezzo l’ apparire dei lombrichi lucidi e umidicci tra le zolle smosse; allora invece non mi facevo nessun problema a prenderli e a sistemarli nel barattolo che conteneva anche un po’ di terra.

Si partiva poi in bicicletta , io sulla canna, e si arrivava sulla riva di uno dei  canali  che percorrono la mia zona.
Mi piaceva stare seduta sul ciglio del canale ad aspettare che i pesci abboccassero, tenendo d’ occhio il galleggiante.
C’ era caldo e si sentivano solo i grilli , le cicale e il tonfo delle rane che si tuffavano in acqua, mentre l’ odore dell’ acqua melmosa ti riempiva le narici.

I miei fratelli mi avevano insegnato a innescare gli ami e a lavare poi le mani nell’ acqua del canale, a lanciare la lenza di una piccola canna senza rimanere impigliati nell’amo e a non lasciarsi prendere dall’ ansia di tirare su il pesce al più piccolo segnale di abboccamento, ma si doveva aspettare che il galleggiante andasse sott’ acqua: allora sì che potevi alzare la canna e sperare che ci fosse  attaccato un pesciolino.
Non mi faceva per niente pena vedere il povero pesce dibattersi mentre gli veniva tolto l’ amo dalla bocca; oggi sarei molto più compassionevole.
In genere si pescavano dei pescigatto o dei “gobbi” o altri pesciolini di minor pregio, che poi mia madre puliva e friggeva.
Andare a pesca, oltre che un divertimento ,era un modo per rimediare una cena gustosa.

Il calzolaio.

Quand’ ero piccola , avevo anch’ io le mie incombenze in casa: dovevo asciugare le posate, pulire il fornello a gas e, in genere al lunedì, dovevo pulire le scarpe usate la domenica, quelle della festa.

Mia madre mi faceva sedere su una piccola sedia impagliata, mi metteva sulle ginocchia un vecchio grembiule e mi  dava in consegna una scatola in cui era contenuto  tutto l’ occorrente per eseguire l’ operazione.

Le strade da quelle parti allora non erano asfaltate perciò bisognava rimuovere fango e polvere prima di passare la spazzola con il lucido adatto al colore delle scarpe. Era durante questa operazione che si controllava se le calzature avessero bisogno dell’ opera di Giliberto, il calzolaio che abitava poco distante.

Così finito il lavoro di manutenzione e riposte le calzature in ordine in attesa della festa successiva, andavo a portare quelle bisognose di riparazione dal calzolaio.

Aveva il suo angolo di lavoro in casa sua, accanto alla macchina da cucire di sua moglie che faceva la camiciaia ;ai miei occhi la signora era bellissima, coi suoi capelli biondi ossigenati e le labbra dipinte.

Giliberto invece aveva un viso troppo lungo  e i capelli arruffati, ma un sorriso simpatico. Sedeva su una sedia bassa davanti a un tavolino pieno di chiodini, suole di cuoio, spago, colle varie e il tutto emetteva un caratteristico odore acre che ti pizzicava le narici..  Le pareti dietro di lui erano attrezzate con ripiani pieni di scarpe di tutti i tipi in attesa della sua opera o in attesa di essere riconsegnate ai proprietari.

Prendeva in mano le scarpe che gli porgevo , le esaminava con cura ed emetteva la sua sentenza . ” Qui ci vuole una bella risuolata, … qui sono partiti i tacchi… .. vieni a riprenderle fra … ”  e mentre parlava aveva sempre tra le labbra un mozzicone di sigaretta che ballava pericolosamente o un chiodino, di quelli che stava battendo con quel  curioso martello dalle lunghe code e dalla testa allargata.

Allora, nel pomeriggio, la radio trasmetteva una rubrica dedicata ai ragazzi, che io ascoltavo spesso. La sigla era una canzoncina che diceva così: “Io son mastro Lesina, son ciabattin/ faccio scarpette di tipo assai fin/lavoro contento, mi piace cantar/ e ai bimbi buoni le fiabe narrar.” Seguiva poi il racconto di una favola e io immaginavo che dietro quella voce si nascondesse proprio il mio vicino Giliberto.

 

Samuele, tre anni fa…

Era il terzo giorno di ricovero all’ ospedale (a Londra). Le iniezioni per indurre le doglie avevano solo l’ effetto di produrre dolori lancinanti, ma nessuna utilità clinica. Da tre giorni continuava questa tortura. Intorno si succedevano a ritmo frenetico gli arrivi delle partorienti (per la maggioranza di colore) e le invocazioni ad Allah erano a volte appena sussurrate, a volte risuonavano nelle corsie come nenie laceranti.

Le ostetriche , molto prese, si dimenbticavano di controllare il battito di Samuele che non riusciva a nascere e verso sera mia figlia cominciò ad agitarsi : perchè nessuno badava a lei? Ci fu risposto che il protocollo prevedeva un certo numero di giorni di tentativi di induzione del parto naturale e che non c’ era niente altro da fare che aspettare….. c’ erano casi più urgenti…  Il panico ci prese e io mi sentivo molto impotente visto che non parlavo l’ inglese… A un certo punto mia figlia si arrabbiò davvero e trascinandosi col suo pancione andò dalla caporeparto (un’ orientale) e l’ affrontò con grinta, minacciando di ricorrere all’ avvocato se non fosse stata tenuta sotto controllo costante.

A quel punto venne il medico, che con fare conciliante spiegò come ormai fosse chiaro di dover ricorrere al parto cesareo, che però sarebbe stato consentito solo il giorno dopo…. ma mia figlia insistette perchè se era inevitabile, l’ intervento fosse fatto subito.

A questo punto , erano già le 11 di sera,mi sentii offrire una tazza di tè e prepararono la sala parto.

Un’ ora dopo, circa, tutto era finito: era nato un lunghissimo bebè che proprio per le sue dimensioni era rimasto incastrato nel bacino materno: la sua testa era decisamente schiacciata da una parte e aveva un’ anca lussata (penso per le contrazioni che aveva dovuto subire ), Al primo cambio compresi il problema all’ anca e ricordando gli insegnamenti di mia madre cominciai a sistemare pannolini e coperte in modo da costringere le gambette in posizione divaricata , quanto al resto, sapevo che i lineamenti si sarebbero armonizzati in breve tempo ed è così che tre anni fa è nato Samuele, un bambino stupendo, come gli altri miei due nipoti.

Tanti auguri , Samuele! Tanti auguri, Grazia!

P.S. devo ricordare di ringraziare Surjinder, l’ amico indiano di mia figlia, che è venuto nel cuore della notte all’ ospedale per riportarmi a casa, non prima di aver scattato foto ricordo a madre e figlio.