Andar per viole.

Riporto qui un post scritto alla fine di un inverno di qualche anno fa…Stamattina è ricomparso il sole, dopo giorni e giorni di neve, prima, e di pioggia poi.

C’ è nell’ aria e nelle gemme rigonfie un primo presagio di primavera… questo mi riporta a quando ero piccola …C’ era una specie di gara tra noi a chi riusciva a portare alla maestra il primo mazzolino di viole raccolte nei campi.Così nei primi giorni di bel tempo al ritorno da scuola ci si metteva d’ accordo per ritrovarsi insieme e andare  “a viole”

Si poteva già uscire senza cappotto perchè il sole era già tiepido nelle ore centrali del giorno.Si andava per i sentieri scavalcando qua e là i fossatelli pieni d’ acqua che percorrevano la campagna.C’ erano i contadini nei campi che terminavano le potature o che raccoglievano le fascine e che, senza parere, ci tenevano d’ occhio. Noi correvamo verso le rive dei fossi dove le viole fiorivano prima e capitava di attraversare i campi arati già dall’ autunno e che avevano riposato per tutto l’ inverno sotto la neve. Il gelo aveva formato sulle zolle una crosta superficiale friabile. Calpestandola, si sbriciolava e la terra ti riempiva le scarpe, così dovevi toglierle e i piedi affondavano fino a trovare gli strati di terra sottostanti ancora gelidi. Poi la corsa riprendeva per raggiungere gli altri che nel frattempo avevano proseguito l’ esplorazione. Le viole più ambite erano quelle a gambo lungo e anche quelle bianche erano particolarmente apprezzate. Ognuno di noi componeva il suo mazzetto senza dimenticare di aggiungere qualche foglia per renderlo esteticamente più gradevole e con quel trofeo profumato si tornava a casa. La mattina dopo si cercava di arrivare a scuola un po’ prima del solito per poter mettere le viole nel vasetto sulla cattedra , così la maestra avrebbe mostrato sorpresa e avrebbe ringraziato di quel segno inequivocabile di primavera

Operazione nostalgia.

Per un gioco tra blog ci siamo inventati……l’ operazione nostalgia : ricordare cose legate ai cinque sensi di cui si ha un piacevole ricordo.

LE CINQUE COSE DI CUI HO NOSTALGIA:

VISTA : ogni sera rimpiango il momento in cui anni fa entravo nelle camerette dei miei figli addormentati serenamente nei loro lettini; li accarezzavo, sistemavo le loro coperte e stavo lì un momento a guardarli: com’ erano belli e “giusti”! Non potevo che ringraziare Dio per averli lì vicino a me , al sicuro.

UDITO : ho nostalgia della voce di mia madre che, quando è rimasta sola, mi chiamava al telefono tanto per parlare un po’ (vivevamo lontane) e cominciava sempre così :- A son me, son la mama…Dopo la sua morte, per molto tempo, quando squillava il telefono, per un attimo pensavo :- Sarà mia madre…- poi subito capivo che non sarebbe stato così…

GUSTO : ho nostalgia dei “marustican” (alcuni li chiamavano anche mirabelle) una specie di prugnette piccole che si mangiavano prima che fossero mature all’ inizio dell’ estate.La polpa era croccante e sprigionava un succo acidulo che ti faceva venire l’ acquolina in bocca come se mangiassi una fetta di limone. Io andavo a mangiarli a casa della mia amica più cara, che ne aveva una pianta nel suo appezzamento di terra. Da troppo tempo ho perso di vista quella mia amica e da allora non ho più trovato i “marustican”

OLFATTO : ho nostalgia dell’ odore dell’ inchiostro che usavo da piccola per scrivere con cannuccia e pennino sui quaderni con copertina nera e bordo rosso.

TATTO : ho nostalgia di una sensazione particolare. quando veniva la primavera, andavamo in gruppetti a raccogliere le prima viole da portare alla maestra. La terra arata nell’ autunno aveva una crosta superficiale molto friabile, perciò ti entrava nelle scarpe e dovevi toglierla per rimuoverla. Allora sentivi prima un solletico tiepido, poi i piedi affondavano nello strato sottostante, più umido, perciò più nero e più freddo, perchè il gelo era finito da poco.

LE CINQUE COSE DA DIMENTICARE

I TRENI A VAPORE : avevano un odore sgradevole, erano scomodissimi per salirci e quando ti affacciavi ai finestrini durante il viaggio ti beccavi sempre qualche briciola di carbone negli occhi.

LE SARTE DI UNA VOLTA  ricordo che non mi piaceva affatto andare dalla sarta; non sapevo mai come doveva essere fatto sto vestito, quindi non sapevo dare indicazioni precise e così la sarta faceva a gusto suo e ;alla fine non ero mai soddisfatta.

LE PENNE STILOGRAFICHE: costavano molto e se ti cadevano dovevi buttarle.

LA “CORTINA DI FERRO” : ricordate il mondo diviso in due blocchi?

IL MURO DI BERLINO : quante tragedie, quanta gente ha perso la vita per superarlo…

Una festa in paese.

Ero forse in IV elementare e la scuola fu invitata a partecipare a una sfilata in costume che intendeva far rivivere i tempi in cui il nostro paesino era dominato dagli antichi signori.

Tutto il paese e tutti i circoli culturali e associazioni varie partecipavano alla festa.
Anche per me fu prenotato il noleggio di un vestito da dama rinascimentale.
Quando arrivò il giorno della sfilata c’ era molta gente per le strade, perchè ognuno aveva qualcuno di famiglia impegnato nella rievocazione storica….
Io indossavo il mio abitino lungo di velluto color nocciola con profili verdi e in testa avevo un copricapo che mi faceva sembrare buffa   (anche ora non trovo mai nè un cappello, nè un berretto o altro che non mi faccia sembrare mooooolto “buffa”).
La mia compagna di banco invece aveva due grandi trecce bionde che  sbucavano da sotto il cappello e le incorniciavano il viso: il solo fatto che fosse bionda me la faceva sembrare bellissima e poi il suo vestito era di un bel viola intenso con profili dorati.
Mi sentivo un po’ scialba e  a disagio.
Il corteo attraversò le vie del paese, sostò sotto il balcone del municipio a cui si affacciò la coppia che impersonava i “signori conti” per un breve discorso alla folla plaudente e poi ci si avviò verso il teatro, dove tutti i personaggi sfilarono sotto gli occhi di una giuria che doveva premiare il vestito più bello (cosa che a mio avviso non aveva molto senso, essendo tutti  abiti noleggiati).
Ricordo l’ imbarazzo con cui, ad un cenno della mia maestra, salii su una passerella improvvisata.

La sottile malinconia che mi aveva preso fin dall’ inizio, man mano che venivano chiamati gli altri bambini per la premiazione, si era accentuata sempre più e quando fui chiamata per ultima ebbi la conferma delle mie sensazioni spiacevoli: ero proprio la più brutta!!!
Il ricordo, dopo tanto tempo, si è purificato da quel senso di frustrazione e mi piace riportarlo alla mente, ma quel giorno, che doveva essere una festa,  non mi portò molta allegria.

La vendemmia.

Quando le giornate si facevano più corte, al mattino vedevi, aprendo la finestra, una leggera nebbiolina alzarsi dal prato antistante, mentre ti arrivava alle narici il gradevole odore dell’uva ormai matura.
Ricordo che era  il momento  più bello dell’ anno, perchè il caldo soffocante era ormai passato e nei campi si stava bene, l’aria era tiepida e tutto intorno le foglie degli alberi cominciavano ad assumere il tipico aspetto autunnale, quando sembra che rilascino  la luce del sole che hanno assorbito durante la stagione passata.
Allora era il momento della vendemmia.
Ogni vendemmiatore portava la sua roncola e il suo paniere e si andava nei filari dove l’ uva era più matura.
Cogliere i grappoli, riempire i canestri e svuotarli nelle cassette, che venivano poi caricate sui carri ,  era  faticoso, ma ci si poteva permettere il lusso  di scambiare qualche chiacchiera sui fatti del paese o di lanciare una battuta di spirito.
Le api si affollavano attorno ai grappoli più maturi e ricordo che anch’ io potevo fare buone scorpacciate scegliendo i grappoli più belli , che mi lasciavano le dita appiccicose, o andando a cogliere qualche pera ancora sull’albero.o qualche noce appena caduta .

Ricordo un personaggio in particolare: l’Albertino, il “putt” (cioè lo scapolo), della fattoria. Era un po’ balbuziente, ma quando cantava sembrava un vero tenore  e spesso era lui che allietava le ore di lavoro, mentre gli altri assecondavano il suo canto facendo la “seconda voce” o canticchiando piano per non rovinare quell’ armonia .

 

Storie di famiglia: Eva, Fatima e nonno Vincenzo

Dai racconti di mia sorella Ilva:

Da sempre, in ogni comunità, quando anche  la medicina era poco più che stregoneria, c’ era un guaritore o una guaritrice cui la gente ricorreva  sperando nel beneficio che una sua parola, un gesto, una pozione potessero porre fine a malanni e sofferenze.

Nel mio paese , nei primi decenni del secolo scorso, c’ era  Eva che  tutti dicevano avesse un “dono” speciale e che in molte circostanze si era guadagnata la riconoscenza dei suoi compaesani.

Nel 1917 però , in piena guerra, Eva (detta “Lèva) si trovò impotente a fronteggiare qualcosa che era troppo più forte dei suoi poteri: sua figlia Fatima, una bambina di pochi anni, era in pericolo di vita per una difterite ( il terribile crup) , rischiava di morire soffocata. Doveva essere portata all’ ospedale di Carpi, l’ unico della zona (distante 15 Km.). Chi poteva accompagnarla?

Mio nonno paterno, aveva allora 52 anni. Era stato nell’ arma dei carabinieri ed era tra i pochi che, nei dintorni, disponesse di un calesse e di un cavallo. In quei giorni però lo aveva colpito una brutta forma di polmonite e aveva la febbre alta.

Probabilmente in quel momento c’ erano pochi altri uomini in paese e lui si sentì in dovere di rispondere a quella richiesta di aiuto e senza curarsi di ciò che sarebbe potuto accadergli, caricò Eva e la sua bimba sul calesse e sfidò il freddo di quell’ inverno infausto.

Fatima potè così essere curata e si salvò, nonno Vincenzo invece morì pochi giorni dopo.

 

 

 

Nevicate.

Quando ero piccola io,  quasi ogni anno  le nevicate erano abbondanti e seppellivano la pianura sotto un pesante mantello bianco che addolciva i contorni delle cose e diffondeva nell’ aria una luce diversa, anche di notte.
Ricordo come mi piaceva stare in casa vicino alla stufa o vicino al camino e guardare fuori dalla finestra la neve che scendeva giù fitta, mentre il papà entrando col suo tabarro imbiancato faceva entrare una zaffata d’ aria fredda che ti faceva apprezzare ancor di più il tepore della casa e intanto diceva:
– Se continua così ne verrà una gamba…..-
Oppure: – Col freddo che fa questa ce la porteremo fino alla primavera….
Intanto io preparavo delle briciole di pane da lanciare sulla neve per gli uccellini affamatissimi, ma si sapeva che molti preparavano invece delle vere e proprie trappole per catturarli e mangiarseli con la polenta, ma allora non ci si scandalizzava molto per questo.
C’ era poi chi aveva avuto modo in autunno di fare la sapa (il mosto cotto) e con la neve ora si preparava una granita speciale o almeno così dicevano (io non l’ ho mai assaggiata).
Era bello fin che la neve cadeva, ma poi cominciavano i disagi: la spalatura, l’ acqua di neve che ti bagnava le scarpe e penetrava a gelarti i piedi e non c’ erano mezzi diversi che il camminare a piedi, mentre sprofondavi lasciando le tue impronte nella neve che crocchiava sotto di te.

Spazio aperto: mia cugina Lia racconta….

Ho chiesto a mia cugina Lia di regalarmi il ricordo di ciò che il suo papà, Enzo,  fratello minore di mio padre, raccontava quando riandava con la mente alla sua infanzia e ai suoi anni giovanili e di  raccontare quanto lei stessa ricorda della nostra famiglia. Ed ecco quanto molto gentilmente lei mi ha scritto:
Cara Diana, temo che anche i miei ricordi sull’infanzia di mio padre siano molto frammentari e, soprattutto, riguardano lui solo e non la sua famiglia. Avrei dovuto scrivere quello che raccontava. So del suo desiderio di avere zoccoli di legno ( immagino come quelli del film “l’albero degli zoccoli” di Olmi )e che fu una grande gioia quando li ebbe, così poteva scivolare sul ghiaccio, andando a scuola a piedi, anche d’inverno, dalla casa del “Cantonazzo” (contrada assai distante dal paese).
So che quando facevano qualche festa in casa, mettevano una spessa asse di legno sul pozzo, che era interno alla casa, e lì si accomodavano i “suonatori”…
Poi mi raccontava che, “quand me fradel Bruno l’era ande’ a tor l’ impero, me’ a gheva da tgnir al negozi di bicicleti da per me, ca gheva quatordes an !!”( Si capisce la trascrizione del dialetto?)
Pensa, diceva che Bruno era andato a “prendere” l’ impero, la stessa espressione che ho trovato nel libro di Pennacchi “Canale Mussolini”, perché Mussolini diceva che l’impero sulle terre d’Africa era nostro di diritto , ereditato dai Romani , per cui noi dovevamo andare a riprendercelo!
Quando era militare, costruiva le radio a galena per i suoi superiori, meritandosi così qualche licenza extra, per poter reperire il materiale. Ma qui siamo già avanti nel tempo, verso il 1938, quando mio padre parti’ per fare il militare e non ne tornò che dopo 7 anni, alla fine della guerra.
 C’è un episodio di quel periodo che mio padre raccontava con commozione: doveva imbarcarsi su una nave in partenza per l’ Africa, ma non partì da Napoli,  perché il suo colonnello, a cui faceva da autista e che gli voleva bene, lo rimandò indietro perché lui( mio padre) aveva famiglia.
Pensa, la nave fu affondata !  Dopo l’8 settembre ci fu il lungo ritorno a casa : da Postumia in Emilia a piedi.
Per la nonna Carolina … Be’, io ero la sua nipote preferita e mi difendeva sempre a spada tratta, anche contro i miei. Le sono rimasta affezionata e la ricordo spesso, non ostante fosse brontolona e musona. Poveretta, la vita non era stata buona neanche con lei e forse non era riuscita a superare i torti subiti.  Mah! Pace all’anima sua. Adesso è col ” pover Visens, c’ l’era tanto bel visti’ da carabinier!”.
Grazie infinite, Lia! Il tuo bellissimo racconto viene ad aggiungere qualche tassello alla storia delle nostre famiglie ….io la lascio qui a disposizione dei nostri nipoti…se un giorno vorranno conoscere qualcosa in più circa le loro radici…

I miei primi giorni di scuola….

In casa mia si parlava solo il dialetto, come tutti  nei dintorni, a parte qualche bambino delle famiglie che abitavano in piazza e che avevano come status-symbol gli abiti sempre alla moda e la parlata elegante, ma io quelli non li conoscevo nemmeno.
Ricordo che quando giocavamo alle “signore” io e le mie amichette ci sforzavamo di parlare in italiano (non so con quali risultati) e per accentuare la raffinatezza del nostro eloquio atteggiavamo la bocca in un modo curioso.
Non ero mai andata all’ asilo, perchè era troppo lontano e quindi al momento di cominciare la scuola io mi sono trovata catapultata in un mondo del tutto estraneo e ostile , a mio avviso, quasi come può capitare oggi a un bambino straniero.
Per i primi giorni resistetti stoicamente, ma una mattina mi alzai ben decisa a non andare più in quella scuola, visto che io non sapevo fare nulla di quello che mi veniva richiesto.
Devo aver fatto un bel po’ di capricci, se a un certo punto mio padre, per la prima ed unica volta nella mia vita, arrivò a darmi una bella pacca sul sedere.

Ricordo anche le tragedie che feci il giorno in cui per compito dovevo scrivere una pagina di “i” : non mi sembravano mai fatte abbastanza bene e mi disperavo; venne  in aiuto anche mio fratello Franco , che era ormai un giovanotto e che spesso si divertiva alle mie spalle . Dopo avermi offerto la sua assistenza tecnica per migliorare la mia grafia, non potè resistere alla tentazione di fare una battuta cattiva e mi disse : Se iangi così per la “i” , chissà quanto dovrai piangere domattina con le “U” che si scrive come fossero due “i” attaccate!!!-

Credo che a questa battuta il mio pianto diventasse  un vero diluvio….ma poi in breve tempo mi rassegnai al mio destino di scolara e mi inserii nel nuovo ambiente con soddisfazione mia e dei miei genitori.