Quando arrivò la TV.

Mio fratello nel 56 lavorava alla RAI e doveva preparare i collegamenti televisivi da Cortina per le Olimpiadi invernali.
Sapevamo che sarebbe comparso anche se per poco in un documentario  sulla imminente manifestazione sportiva e lo zio, che vendeva televisori, ce ne prestò uno, affinchè papà e mamma potessero vedere il loro figlio al lavoro.
Era grande , ingombrante e quando la notizia si seppe tra i vicini, ci fu grande curiosità, perchè in tutto il paese ce n’ erano pochissimi .
Quando fu messo in funzione, sembrò a tutti che si compisse una magia: era come avere il cinema in casa!
Ricordo che fu piazzato su un mobiletto apposito che aveva un secondo ripiano su cui fu piazzato un  grosso trasformatore. Sopra all’apparecchio fu posata una lampada gialla: sul suo paralume una serie di forellini formava la sigla TV che si vedeva bene in controluce.

L’ accensione era sempre un’ operazione piuttosto lunga, che creava una certa suspense: dopo qualche minuto di attesa cominciavano ad apparire sullo schermo prima dei puntini poi delle righe orizzontali e spesso bisognava mettere a punto l’ immagine in bianco e nero e quando tutto finalmente entrava in funzione, ci sentivamo tutti soddisfatti: finalmente si cominciava.

Cominciarono a venire i nostri vicini la sera dopo cena in casa nostra, ma non più per la solita chiacchierata (in filòs) o per la partita a carte, ma per vedere “Lascia e raddoppia” che allora furoreggiava e con il premio finale di cinquemilioni faceva sognare tutti.
Durante la giornata trasmettevano solo le gare olimpiche e io mi ricordo che quell’ anno l’ atleta che vinse il maggior numero di medaglie fu un certo Tony Sailer, un bellissimo ragazzo austriaco e fu forse allora che cominciai a interessarmi di sport, anche se in modo molto “intermittente”
Ricordo che a scuola parlavo anche alla maestra delle trasmissioni che avevo visto il giorno prima  suscitando lo stupore, la curiosità e forse anche l’ invidia  dei miei compagni.
Alla mia amica preferita invece raccontavo le trame dei film più appassionanti e mi sentivo un po’ una privilegiata.

La Grande guerra: storie di famiglia e non solo….

Riporto qui il post che ho scritto per il sito ” Per Lunga Vita” dell’ amica Lidia Goldoni.

Quest’anno si sono celebrati i cento anni dall’ entrata dell’ Italia nella Grande Guerra.
Molte sono state le occasioni per ricordare quel triste avvenimento con il terribile strascico di morti e di dolore che ha portato con sé.
Come spesso è accaduto nella storia, una ristretta minoranza ha fatto delle scelte, le cui conseguenze poi sono ricadute su una maggioranza inconsapevole e incolpevole.

Ideali fasulli di una élite annoiata del quieto vivere sono stati enfatizzati in ogni paese europeo fino a determinare un conflitto che cancellerà un’ intera generazione di giovani.
Tra quei giovani c’ era anche il mio nonno materno.
Lui non era un intellettuale imbevuto di nostalgie risorgimentali, era solo un giovane contadino che, non ancora trentenne, si è visto costretto a lasciare la sua giovane moglie e i suoi figli, tutti piccolissimi, per indossare una divisa e imbracciare un fucile.
Tra i ricordi, che mia madre rievocava ogni tanto, naturalmente non ci sono le pene, i tormenti della vita di trincea: probabilmente il nonno non ha avuto modo di parlarne con nessuno, forse nemmeno con la moglie, per non angustiarla anche di più di quanto già non lo fosse. Tuttavia oggi sappiamo bene quali orrori abbiano dovuto vivere i soldati, immersi perennemente nel fango, negli escrementi e nel fetore dei cadaveri, oltre all’ insensatezza di ordini impartiti da generali incompetenti e senza scrupoli, che li mandavano all’ assalto per conquistare poche centinaia di metri, che sarebbero stati persi il giorno dopo…..per non parlare della scarsità di cibo, degli indumenti inadatti e dei pidocchi….
Tuttavia il mio allora giovane nonno era riuscito a sopravvivere a quei tre anni di inferno, la guerra era finita, l’ armistizio era stato firmato e lui era rientrato a casa in licenza per le feste di Natale.
Mia madre, che allora aveva appena 8 anni ed era la primogenita, ancora negli ultimi tempi della sua vita ricordava quei giorni e diceva:
“Era bello mio padre; non era tanto alto, ma aveva un bel viso tondo ornato da un paio di baffetti corti. Era così felice in quei giorni di licenza !! E quando è partito si è fermato sulla porta dicendo a noi bambini che sarebbe tornato presto e che saremmo stati sempre insieme. Poi si era allontanato fischiettando”.
Passarono pochi giorni e arrivò un telegramma: Onesto Magnani era deceduto a Cento di Ferrara dove era di stanza.
Mia nonna Marcellina aveva allora trentun anni, quattro figli già nati e uno in arrivo.
In paese qualcuno accettò di accompagnarla a Cento, non so con quali mezzi. Non credo che si fosse mai allontanata tanto dal paese, ma lei, incinta, partì per poter riconoscere il marito e provvedere al rientro della salma per la sepoltura nel cimitero del paese.
Da allora cominciò per lei e per i suoi figli una serie di vicissitudini facilmente immaginabili: prima di tutto dovette combattere contro la burocrazia che non voleva riconoscerle lo status di vedova di guerra, perché il marito era morto di spagnola quando la guerra era finita ormai. Ma nonna Marcellina non si lasciò scoraggiare e cominciò a peregrinare tra uffici di paese e provinciali per ottenere la pensione per lei e per i suoi figli e alla fine ci riuscì.
Cosa poteva fare ? Non se la sentiva di restare tutta sola a portare avanti la sua numerosa famiglia e decise di tornare in casa coi genitori ( cosa che, mia madre , una volta diventata grande, ha sempre ritenuto sbagliata: lei e i suoi fratelli avrebbero potuto usufruire degli aiuti previsti per gli orfani di guerra , cosa che non fu possibile ottenere dopo che risultavano abitare in casa di un socialista , come era il bisnonno).
Mia madre aveva nove anni. Fino ad allora era andata a scuola ed era brava, le piaceva studiare e imparare tante cose. Frequentava la quarta classe, ma, dopo il trasferimento nella casa del nonno, lei dovette cominciare a lavorare nei campi, ad alzarsi all’ alba per accudire le mucche e pulire la stalla. Quasi tutte le mattine poi doveva anche fare la sfoglia, ma poiché era troppo piccola, per poterla stendere bene saliva su un panchetto.
Delle peripezie di mio padre in quel periodo non so molto, lui non amava ricordare quei tempi. So solo che a un certo punto il podere della famiglia fu venduto, che mio padre, una volta cresciuto e sposato con mia madre, aveva cercato un lavoro, ma per ottenerlo avrebbe dovuto iscriversi al partito che ormai aveva preso il potere e lui allora decise di mettersi in proprio e fare il pollivendolo ambulante. Cominciò ad andare nelle fattorie a comprare “dai rasdori” uova, polli, galline, conigli per portarle ai mercati. Si alzava alle quattro del mattino e con le stie piene e pesantissime caricate davanti e dietro sulla bicicletta (a volte mia madre doveva aiutarlo a salire in sella tanto il carico era pesante) andava fino a Carpi. Così riusciva a portare a casa quanto bastava a noi 5 figli , ma si può ben immaginare che si potevano soddisfare solo i bisogni essenziali.
Mia madre raccontava che quando lei e mio padre erano andati a vivere da soli avevano solo un letto e una sedia: eppure venivano entrambi da famiglie che avevano avuto terreni e case di proprietà, ma la guerra che aveva portato via i capifamiglia li aveva precipitati nella povertà.
Forse la gente del popolo aveva sempre saputo quanto le guerre siano stupide, insensate e inutilmente atroci, ma anche coloro che avevano inneggiato alla guerra, che l’ avevano voluta per cercarvi gloria e onore, una volta in trincea, compresero bene quanto fossero stati ingannati, di quale menzogna fossero state vittime .
Riporto qui una poesia famosa tratta dalle lezioni dell’ UTE dello scorso anno Accademico.
DULCE ET DECORUM EST (di Owen).
Piegati in due, come vecchi straccioni, sacco in spalla,
le ginocchia ricurve, tossendo come megere, imprecavamo nel fango,
finché volgemmo le spalle all’ossessivo bagliore delle esplosioni
e verso il nostro lontano riposo cominciammo ad arrancare.
Gli uomini marciavano addormentati. Molti, persi gli stivali,
procedevano claudicanti, calzati di sangue. Tutti finirono
azzoppati; tutti orbi;
ubriachi di stanchezza; sordi persino al sibilo
di stanche granate che cadevano lontane indietro.
Il GAS! IL GAS! Svelti ragazzi! – Come in estasi annasparono,
infilandosi appena in tempo i goffi elmetti;
ma ci fu uno che continuava a gridare e a inciampare
dimenandosi come in mezzo alle fiamme o alla calce…
Confusamente, attraverso l’oblò di vetro appannato e la densa luce verdastra
come in un mare verde, lo vidi annegare.
In tutti i miei sogni, davanti ai miei occhi smarriti,
si tuffa verso di me, cola giù, soffoca, annega.
Se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo
dietro il furgone in cui lo scaraventammo,
e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto,
il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato;
se solo potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceni come il cancro, amari come il rigurgito
di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,
la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est
Pro patria mori.
(Traduzione dell’ ultima frase latina che dà il titolo alla poesia : E’ dolce e onorevole morire per la patria)
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Forse perché quando si parla di Grande Guerra risento il dolore che traspariva dalla voce di mia madre , forse perché da lei ho capito quale tragedia essa abbia rappresentato per la sua famiglia ( e in seguito per la mia famiglia che si è ritrovata nella povertà), non posso sentir parlare di guerre: non credo che ci possa essere una guerra giusta, se non per difendersi da un inevitabile attacco imminente. I danni che esse provocano non fanno che aggravare le situazioni e aggiungere sofferenze a sofferenze, …e, come dimostra la storia della mia famiglia, i danni della guerra non finiscono con la firma dell’ armistizio o dei trattati di pace, ma proiettano la loro ombra nefasta sul futuro per generazioni.

La signora Felicita.

Quando la mattina mi svegliavo presto per  prendere il treno per andare a scuola, cercavo sempre di ritagliarmi alcuni minuti di dormiveglia, in cui godermi il tepore delle coperte, prima di saltare giù dal letto. In quei momenti accadeva sempre la stessa cosa  che mi faceva capire quale tempo stesse facendo fuori, anche senza aprire la porta-finestra che dava sul balcone.

Prima era il rumore secco di una serratura , poi lo sbattere del cancello della casa di fronte, poi si udivano dei passi decisi e ben cadenzati: se risuonavano in modo eccessivo, voleva dire che la strada era gelata, se si sentivano normalmente il tempo era buono o pioveva, se erano accompagnati da un inconfondibile scricchiolio era caduta la neve. A fornirmi  questo bollettino meteorologico inusuale era la signora Felicita, che ogni mattina, con qualunque tempo , a quell’ ora si recava alla Messa .

Era una donna tanto  piccola e  minuta, che mia madre la chiamava “Felicin” . Aveva il viso incavato e i capelli grigi sempre ben ordinati in una piccola crocchia sulla nuca. Era già anziana, ma non rinunciava mai a portare le sue immancabili scarpette col tacco ed era questo che rendeva i suoi passi così “sonori”.

Viveva con la sorella, di poco più giovane . Era stata sposata , ma non aveva avuto figli ; suo marito  l’ aveva  lasciata sola ed era già morto al tempo di cui sto raccontando. Nonostante questo, so che ogni anno, quando ricorreva l’ anniversario della morte del marito, faceva sempre celebrare una messa a suffragio della sua anima: certo l’ aveva perdonato e gli voleva ancora bene. Risparmiava su tutto, non per avarizia, ma per poter fare beneficenza ad ogni occasione.

Si dava un gran da fare ad aiutare in parrocchia, che era diventata per lei forse un sostitutivo della famiglia che non aveva più. Aveva sempre il sorriso pronto, anche se talvolta non esitava a dispensare consigli e critiche non richiesti.

Ricordo, ad esempio, che una domenica d’ estate, io avevo messo il vestito della festa, come si usava allora. Era un abitino bianco con profili blu e rossi e la gonna  poco sopra al ginocchio, come imponeva  la moda che si era affermata in quel periodo. La signora Felicita mi fermò lungo la strada e mi fece osservare che sarebbe stato meglio allungarla un po’….Lì per lì ci rimasi un po’ male, ma riuscii a replicare che io compravo gli abiti nei negozi, non me li cucivo io, e quindi non potevo fare altro che scegliere tra ciò che veniva esposto  e il vestito che indossavo non aveva nemmeno un orlo da poter disfare.

La signora Felicita parve capire, anche se non era  soddisfatta temendo che potessi dare il cattivo esempio ….. Non me la presi, perchè ero ben consapevole che la mentalità degli anziani  portava a vietare l’ ingresso in chiesa alle bimbe che indossavano vestiti con maniche troppo corte o che non avessero il velo in testa…..

Ci volle ben poco però perché si affermasse il diritto di portare le gonne corte, visto che tutte le ragazze vestivano così.

Quando la mattina mi sveglio e resto a poltrire un po’, accendo la radio  per sentire le notizie di cronaca e del meteo e spesso mi ricordo di quel rumore di passi ….

 

 

 

19 gennaio.

diana-ilva-e-vanna Gennaio: Compleanno di mia sorella Ilva , la maggiore di noi tre e in questa occasione le voglio  regalare questa foto-ricordo.

Anno 1961 : monastero Cappuccine di Carpi. E’ la festa della vestizione di Vanna e mia sorella Ilva ed io posiamo per una foto sul portone della clausura.

Come eravamo giovani tutte e tre!!!  Da allora sono passati tanti anni, e abbiamo vissuto tanti eventi, lieti e dolorosi, ma quello che conta è che siamo ancora in grado di sorridere come allora.

Tanti auguri, Ilva, che la vita ti riservi ancora tanti anni sereni, tanta salute e tanti momenti belli da vivere con le persone che ti sono vicine e che ti vogliono bene e grazie per  essere sempre stata per me un esempio di forza, di fede e di dedizione alla famiglia.

2 Novembre….

Negli ultimi anni della sua vita, mia madre mostrava di aver assunto a poco a poco una certa “confidenza” con l’ idea della morte.
Quando stavo qualche giorno da lei (non abitavamo vicino), mi chiedeva sempre di accompagnarla al cimitero. Preparava un mazzo di fiori che raccoglieva nel suo giardino e saliva in macchina.
Il “giro” cominciava dalla tomba di papà, dove si fermava a lungo mormorando delle preghiere.
Poi andava a rendere omaggio ai parenti e ai conoscenti e davanti alle tombe di ognuno rivolgeva una frase di saluto. Quando passava davanti alla tomba di  suo fratello, la sentivo dire a voce abbastanza alta: – Ciao Virginio, ti ricordi quanto abbiamo ballato e quanto abbiamo lavorato insieme?-.     Passando accanto alla tomba di una vicina : – Vedrai che faremo presto delle altre belle chiacchierate!-
Era come se l’ idea di morire non la spaventasse più, ma fosse entrata naturalmente nei suoi pensieri e nella sua vita; quando poi l’ ho vista sul letto di morte ho avuto quasi una conferma a questa mia impressione: il suo volto era disteso e sereno come non lo era stato più da molto tempo per le lunghe sofferenze e sembrava dire:- Finalmente!
Spero, nel momento supremo,  di poterlo affrontare anch’io come lei, con la serena consapevolezza di aver interpretato al meglio delle mie possibilita` la mia parte, pur con tutti i limiti che la condizione umana impone ad ognuno.

Ieri….e oggi…

Arrivavo la mattina presto con la bici, che lasciavo nel deposito gestito da due anziane sorelle. Lì trovavo le mie amiche che venivano dai paesi vicini non serviti dalla ferrovia. In inverno avevano i capelli , sfuggiti ai copricapo, trasformati in ghiaccioli che formavano attorno alle loro teste una specie di diadema, che si scioglieva in pochi istanti. Insieme ci avviavamo verso la stazione per andare a scuola in città.

Quella piccola stazione era un po’ il vanto del mio paese, un piccolo centro della bassa reggiana. Rappresentava il nostro collegamento col mondo e ci lavoravano parecchie persone. C’era un capostazione , che  abitava al piano superiore, mentre negli uffici al piano terra si vedeva l’ andirivieni di vari impiegati.  La sala d’ attesa era gremita di studenti coi loro libri legati con l’ elastico, da impiegati e insegnanti con le loro cartelle e dalle magliaie e dalle camiciaie, che a quel tempo lavoravano a domicilio e che portavano alle fabbriche di Carpi il prodotto del loro lavoro legato dentro a enormi fagotti.
All’ arrivo del treno ( a quell’ ora mattutina c’ era spesso una vecchia e sbuffante locomotiva a vapore coi sedili di legno ) la stazione si svuotava , ma solo per un po’: le auto erano ancora poche e chi doveva spostarsi si serviva del treno.
Ho rivisto stamattina quella stazioncina : le finestre chiuse  al piano superiore , gli uffici deserti e inaccessibili al piano terra, l’ assenza di una biglietteria  (sostituita da una macchinetta)  davano un’ impressione di abbandono totale. La sala d’ attesa, pur se decorata con bei disegni stile “writers”, era insudiciata da deiezioni (sperabilmente canine) e i pochi viaggiatori , tutti stranieri tranne mia figlia, mio nipote ed io, non potevano certo usufruirne.
Da un cartello ho appreso che la pulizia dei locali è affidata al Comune, che evidentemente non può assicurare un servizio di sorveglianza continuativo e così il degrado avanza inesorabile….
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Una cara amica di Facebook ha scritto questo bel commento al mio post e siccome mi pare completi i miei ricordi, le ho chiesto il permesso di pubblicarlo qui di seguito…

Elettra Susco Diana …per qualche tempo e da studentessa liceale, anch’io ho fatto la pendolare ….per arrivare in stazione dovevo fare circa 2km a piedi, e la stazione che hai descritto è un po’ come la “mia” stazione: sala d’attesa e biglietteria, sotto e sopra l’alloggio del capo-stazione…la sala d’attesa,io la ricordo piena di gente assonnata, piena di fumo di una stufa a legna che non tirava, e di fumo di sigari e sigarette, stantio….era un colpo allo stomaco ogni mattina, per aspettare un treno che somigliava più a un carro bestiame, sempre in ritardo, dove non c’era un posto a sedere, neppure pagarlo oro e dove l’odore “umano” era un’ altra botta allo stomaco…arrivavo a scuola già stanca e pesta..i miei compagni, ma specialmente, le mie compagne erano uscite di casa un’ora e anche più, dopo di me ed erano tutte perfette e truccate di fresco…al ritorno altra attesa in una stazione gemella a quella di partenza e , all’arriva, qualche volta potevo contare su un passaggio che era graditissimo, perchè se all’andata la strada era in discesa, al ritorno, alle 2 del pomeriggio, e digiuna, era in salita…..” (Elettra Susco)

Grazie, Elettra!

Il falciatore

Ora tagliare l’ erba è diventato un lavoro molto semplice: basta azionare un tosaerba nei giardini o una falciatrice nei prati e in poco tempo vaste superfici vengono liberate dal loro mantello erboso.

Io ricordo invece quando, verso sera, nella bella stagione, c’ era sempre qualcuno sulle aie di campagna intento a preparare la sua falce per il lavoro del giorno successivo.

Seduto a terra sul bordo del marciapiede davanti a casa , il contadino o il bracciante piantava a terra un lungo ferro sul quale appoggiava la lama della falce e con un martello cominciava a battere sul filo del suo attrezzo, mentre l’ altra mano lo faceva scorrere lentissimamente  e il lavoro continuava fino a quando tutta la lama era stata battuta al punto giusto. Per capire se il filo era abbastanza tagliente, bastava toccarlo  col pollice: il rumore prodotto dal leggero sfregamento e il tatto  dicevano se il lavoro era stato ben eseguito. Poi c’ era il lavoro di rifinitura per togliere eventuali piccole irregolarità: con la cote, una pietra a forma ovale molto allungata (che mi pare venisse custodita dentro a un corno legato alla cintura contenente un po’ d’ acqua), il contadino lisciava il filo della lama . Mi colpivano la precisione e la destrezza dei movimenti, che testimoniavano una lunga esperienza .

Quando poi si trattava di falciare l’ erba di un prato, il contadino procedeva piano , coordinando tutti i movimenti del suo corpo: mentre le braccia si allargavano azionando la lunga falce, il passo ritmato assecondava quel movimento. Il lavoro era duro e ogni tanto il falciatore si rialzava per ripassare il filo della falce con la cote  o per asciugare il sudore della fronte . Dopo ore di lavoro, tutta l’ erba giaceva a terra e lì sarebbe rimasta fino a che non si fosse ben asciugata e proprio per questo veniva più volte rivoltata coi forconi fino a quando fosse stata pronta per rifornire il fienile rimasto vuoto nell’ inverno appena trascorso.

Mia madre da giovane.

Mia madre in questa foto aveva circa vent’ anni e già da dieci lavorava duro, insieme ai fratelli, nella fattoria del nonno, che alla sua morte non lasciò poi nulla a quei nipoti che lo avevano aiutato a mandare avanti il podere.

Guardando questa foto mi fa una grande tenerezza quella mano destra chiusa  quasi a pugno: certo non era abituata a posare davanti a un fotografo (questa credo sia l’ unica foto che ritrae mia madre da giovane) e quelle mani abituate da tanto tempo  a lavorare non sapeva proprio dove metterle .

Erano gli anni ’30 e la moda aveva accorciato le gonne e i capelli, ma mia madre aveva seguito solo il primo dettame e porterà i capelli lunghi  per tutta la vita: ne faceva una sola grossa treccia che arrotolava a formare un piccolo chignon dietro la nuca. Era bella mia madre e soprattutto non ha mai esitato a mettersi a disposizione di chi poteva aver bisogno del suo aiuto.