Ieri sera in seconda serata su Rai1, tra le varie testimonianze sui campi di sterminio, ho risentito un0 straziante racconto di Liliana Segre.
Le era venuto un ascesso sotto un’ascella e, nell’infermeria del campo, una donna glielo aveva asportato con le forbici, dicendole di non svenire perchè non l’avrebbe aiutata. Tornò nella baracca in preda a una sofferenza fisica atroce e a una terribile angoscia: aveva tredici anni, si sentiva piccola, sola e abbandonata a una sorte disumana. Una donna, prigioniera come lei, vedendola così prostrata, prese un fazzoletto lercio e ne trasse una fettina di carota, una preziosa fettina che poteva fare la differenza tra la vita e la morte e gliela offrì. La piccola Liliana si sentì confortata dal sapore dolce di quel dono e disse “Grazie”.
Il commento della Segre: da tanto tempo non avevo detto “grazie!”
L’orrore del lager aveva tolto tutto a quella prigioniera: i suoi affetti, i suoi averi, i suoi progetti di vita, ma non era riuscito a cancellare il suo senso di umanità.