Da un po’ di tempo, mi sono messa a rileggere i libri che ho nelle varie scaffalature di casa e qualche giorno fa mi è tornato tra le mani “Groviglio di vipere” di F. Mauriac (titolo originale: Le noeud de vipères) pubblicato nel 1932. Il volumetto in mio possesso, con le pagine ormai ingiallite, appartiene alla collana Oscar Mondadori ed è costato 350 lire!!
E’ come una lunga lettera che un avvocato di successo, che si sente alla fine dei suoi giorni per una grave angina pectoris, scrive alla moglie con la quale ha avuto sempre un rapporto fatto di incomprensioni reciproche e di ostilità feroce. Quella lettera vuole essere l’ultima occasione per farsi capire, per far conoscere il vero se stesso a colei che gli è vissuta accanto per tanto tempo senza che i loro cuori potessero incontrarsi.
Così l’avvocato ripercorre la sua vita: era orfano di padre e solo grazie alla sagacia e allo spiccato senso degli affari della madre aveva potuto studiare, conseguire la laurea e diventare poi un avvocato di successo. Le sue umili origini e la successiva ricchezza avevano radicato in lui uno smodato amore per il denaro che lo fa ritenere avaro ed egoista.
Conosce, quando ormai è ricco e famoso, una bella ragazza di cui si innamora e si sposano. Lui è felice, si sente amato, ma poco dopo le nozze lei, in un momento in cui è in vena di sincerità, gli rivela quale fortuna sia stata per lei averlo incontrato, quando ormai tutti in famiglia disperavano di poterla accasare, visto che era stata lasciata dal suo precedente fidanzato.
Questa dichiarazione fatta con leggerezza e noncuranza distrugge in un attimo tutto l’amore che il protagonista sentiva per quella donna che lui ora vede come simulatrice di sentimenti che non prova, come una fredda opportunista e comincia ad odiarla, a trattarla con ostilità ottenendo in cambio altrettanta freddezza e disistima. Nonostante ciò continuano a condurre una vita coniugale apparentemente normale e hanno dei figli, verso i quali la moglie riversa tutto il suo amore, tutti i suoi pensieri, tutte le sue premure, impedendo al marito di interferire in quel piccolo mondo che lei ha creato e inducendo nei figli un atteggiamento di freddezza e di ostilità nei confronti del padre.
Un odio feroce cresce nel cuore dell’avvocato col passare degli anni, odio che viene ampiamente ricambiato da tutti i familiari e anche da parte degli inservienti a cui non presta alcuna attenzione. Il suo cuore diventa un groviglio di vipere: “Conosco il mio cuore, questo groviglio di vipere: soffocato da esse, saturo del loro veleno, continua a battere sotto le loro spire: questo groviglio di vipere che è impossibile sciogliere, che bisognerebbe tagliare con un colpo di coltello, con un colpo di spada”
La sua malattia lo costringe a un periodo di riposo, che trascorre in una villa di campagna, dove, ascoltando, non visto, le discussioni tra la moglie, i figli e i loro coniugi, scopre le macchinazioni che stanno mettendo in atto per impedirgli di diseredarli: anche loro sono un “groviglio di vipere”, e oltretutto tradiscono vergognosamente quella fede cristiana che essi pretendono di professare e praticare, ma che invece riducono a una serie di pratiche del tutto avulse dalla loro vita di tutti i giorni.
Ne segue una lotta sorda e crudele per sventare i colpi bassi dell’una e dell’altra parte, ma nel bel mezzo di questa guerra giunge improvvisa, ma solo per il protagonista sempre concentrato su se stesso, la morte della moglie e la scoperta che, forse anche lei ha sofferto in silenzio per la lontananza e la crudeltà del marito.
Questo evento scioglie il nodo di vipere nel cuore del protagonista, che improvvisamente scopre di non essere più interessato al denaro e lascia tutto ai familiari, scoprendo un altro modo di vivere e di intendere i rapporti coi figli e nipoti. Proprio con una nipote, Giannina, trascorre gli ultimi mesi di vita e sarà lei l’unica a capire veramente il cuore di quel nonno che tutti avevano sempre temuto e odiato.
Giannina è stata testimone di un cambiamento radicale nella vita del nonno, un cambiamento indotto dalla scoperta della fede al punto che lei afferma che solo lui in famiglia è stato, alla fine dei suoi giorni, un vero cristiano.
Quando ho letto questo libro, per la prima volta, cinquant’anni fa, non mi era piaciuto, anche se riconoscevo la grande bravura dello scrittore: troppo cupo il clima delle vicende narrate e per me, allora, irreale: come poteva un uomo vivere nell’odio tutta una vita e permettere a quell’odio di avvelenare i suoi sentimenti più profondi e più veri?
Ora invece capisco come a volte l’orgoglio ferito possa avvelenare una vita intera, come sia possibile vivere per anni in famiglia senza capirsi veramente per l’impossibilità di ammettere i propri errori, rendendo la vita propria e degli altri un inferno senza senso.
Il protagonista del romanzo ha solo 68 anni, ma si sente vecchio (era normale 100 anni fa ritenersi vecchio a quell’età) e ha questo desiderio di guardare indietro, di esaminare i suoi vissuti, di fare dei bilanci e il suo bilancio è disastroso. E’ questa una tentazione che può venire a una certa età, ma se le si cede, non bisogna essere troppo severi con se stessi: è troppo facile valutare razionalmente situazioni e decisioni prese a distanza di tempo, quando non si è più sollecitati dalle circostanze contingenti e quando non si è in grado di prevedere gli effetti delle nostre scelte. Perciò conviene sempre, a mio parere, autogiudicarsi con indulgenza e benevolenza.
Dalla lettura di questo libro, scritto quasi un secolo fa, scaturisce poi lampante una verità inoppugnabile, valida anche oggi: molti cristiani vivono una sorta di sdoppiamento della personalità, confinando la religione a momenti circoscritti della loro esistenza, in cui ripetono gesti e formule, ma poi vivono il resto della vita in pieno contrasto con i principi della loro fede.
In questo senso anche quelli che oggi si dicono cristiani, ma poi votano per partiti che incitano all’odio e all’egoismo, non si rendono conto della contraddizione continua e assurda in cui conducono la loro esistenza.