La giornata lavorativa cominciava prestissimo in estate e i mietitori si radunavano sull’aia in attesa che il “rasdor” dicesse su quale campo di grano ci si doveva recare.
Ognuno aveva la sua falce e dei vestiti adatti a riparare il più possiile dalla polvere e dal sole: larghi cappelli di paglia, fazzolettoni al collo e, spesso, piedi nudi .
Noi bambini seguivamo le mamme, perchè a casa non restava nessuno che badasse a noi e ci rendevamo utili posando a terra i “ligam”,. I mietitori con gesti rapidi e sicuri falciavano gli steli ormai secchi ,adagiavano sui legami le mannelle di frumento fino a comporre il covone, che veniva legato e sistemato all’impiedi (con le spighe rivolte verso l’alto) accanto agli altri. Sarebbe poi passato il carro tirato dai buoi a caricarli e a portarli alla cascina.
Noi bambini avevamo anche il compito di portare l’acqua ai mietitori e facevamo la spola tra la cascina e il campo. Al nostro arrivo essi smettevano un attimo di lavorare e ognuno attingeva un buon mestolo di acqua fresca dal secchio riempito al pozzo.
Ricordo con particolare nitidezza i volti arrossati dalla fatica e dal gran caldo e la polvere che si appiccicava ai volti sudati dei mietitori.
Il sole a picco picchiava forte e le stoppie pungevano piedi e caviglie dei mietitori, ma c’era sempre qualcuno che amava cantare e che ogni tanto intonava una di quelle canzoni che tutti conoscevano; via via altre voci si univano alla sua a formare un coro che parlava di fatica sì, ma di fatica condivisa e per questo più sopportabile e più umana