Qualche giorno fa su Netflix era disponibile il film della Cortellesi che tanto ha fatto parlare di sé in Italia e non solo.
Mi è piaciuta la ricostruzione dell’ambiente (siamo nel 1946) di quartiere, dove si mescolano solidarietà, invidia, gelosia e dove tutti sanno tutto di tutti. Tutti infatti sanno anche cosa accade in casa di Delia: il marito Ivano coglie ogni pretesto per umiliarla e per metterla in ridicolo anche alla presenza dei tre figli, i quali sanno bene quando devono chiudersi in camera perché il padre si sta preparando a picchiare la madre. Delia apparentemente subisce questa situazione come fosse un destino ineluttabile e non finisce mai di prodigarsi per la famiglia facendo mille lavoretti oltre ad accudire la casa, il marito e i figli. Per questo la figlia maggiore le rinfaccia la sua sottomissione e la giudica, ma Delia riuscirà ad impedirle di sposare un ragazzo troppo simile ad Ivano, che la costringerebbe a ripetere lo stesso calvario della madre.
Poi arriva il colpo di scena che nobilita Delia, le fa riguadagnare la stima della figlia e il rispetto del marito. Questo finale dà senso a tutto il film e al suo titolo: nella rivendicazione dei propri diritti è riposta la speranza di un mondo migliore.
La commozione alla fine del film è immancabile, ma una cosa mi ha colpito e un po’ disturbato: nelle scene in cui Delia veniva battuta selvaggiamente dal marito, i movimenti dei due protagonisti della scena si svolgevano a ritmo di danza sulle musiche di sottofondo. Forse questa scelta è stata dettata dall’intenzione di far capire come questo modo di trattare le mogli fosse cosa abituale e comunemente accettata nel modo di intendere i rapporti familiari nel primo dopoguerra, ma non so quanti abbiano colto davvero il senso macabro di questa scelta.
A parte questo particolare, credo davvero che il successo del film sia ampiamente meritato.