Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia è certo la figura della mia nonna materna: era rimasta vedova poco più che trentenne con quattro figli piccoli e l’ ultima in arrivo. Era stata la spagnola a portarle via il giovane marito alla fine della Grande Guerra. Di questa nonna ho già parlato a lungo , ma non ho raccontato di come avesse sempre tra le mani qualcosa da fare: o faceva delle calze per i figli o faceva la “treccia” ed è di questa sua seconda occupazione che voglio raccontare stasera.
Mi pare di ricordare che ci fosse qualcuno in paese che si incaricava di ritirare i mazzi di paglie da Carpi e poi le distribuiva alle varie trecciaiole . Mia nonna era una di loro e arrivava in casa nostra con il suo mazzo di paglie sotto il braccio: a volte erano sottili, a volte più larghe, a volte colorate, ma più spesso bianche . Lei si sedeva su una seggiolina bassa e cominciava a farle volteggiare velocemente intrecciandole in modo da formare lunghissime trecce, lisce o più complesse.
Esaurite le paglie, si doveva lisciare la treccia con un attrezzo a manovella di legno che chiamavamo “slissen” , poi con una specie di lungo bastone con due pioli alle estremità si formavano delle grosse “matasse” che venivano riconsegnate a chi le doveva portare in fabbrica ed era costui che provvedeva a pagare il lavoro compiuto.
Nelle sere d’ inverno, nelle stalle o nelle case ascoltando la radio, le donne continuavano a cercare di arrotondare i magri introiti della famiglia e spesso anche noi bambini davamo un piccolo contributo facendo “la treccia” che sarebbe poi servita per confezionare cappelli e borse di varia fattura.