Obiettivo: comprendere come Dante ha costruito questo canto e cosa possano dire ancora a noi del XXI secolo i suoi versi.
Siamo nella parte più profonda dell’inferno. I dannati sono sdraiati dentro a tombe scoperchiate, che si richiuderanno solo dopo il Giudizio Universale, quando avranno recuperato il loro corpo. Dante parla e il suo linguaggio lo fa riconoscere come fiorentino da un suo concittadino che si alza possente da una delle tombe vicine. E’ Farinata degli Uberti condannato come epicureo (al tempo di Dante erano definiti epicurei gli eretici e chiunque fosse ostile al Papa).
Dante ha gran rispetto per Farinata anche se è ghibellino e quindi suo avversario politico; egli infatti aveva posto davanti a ogni altra cosa la sua passione per la politica, ma, pur combattendo duramente i suoi avversari (battaglia di Montaperti), aveva però sempre privilegiato il bene della sua città e non quello del suo partito.
Lì accanto si alza appena dalla sua tomba Cavalcante Cavalcanti che chiede notizie di suo figlio, amico di Dante, e, non ricevendo subito risposta, si accascia nuovamente. L’unico suo interesse è legato agli affetti familiari.
Dante mette accanto due modi opposti di intendere la propria vita: dedicarsi unicamente all’impegno politico-sociale di Farinata e pensare solo alla propria famiglia di Cavalcante. Entrambi sono da condannare: nella vita bisogna saper conciliare la ricerca del bene comune con la propria vita privata, senza perdere di vista la dimensione religiosa e spirituale.
L’interrogativo che emerge da questo canto di Dante potrebbe essere il seguente: quanti tra i politici dei nostri giorni si impegnano veramente per il bene comune e non per interesse di parte o addirittura per interessi personali?
Ringrazio il prof. Galli per questa lettura “attualizzata” dell’opera di Dante.