UTE: La scuola 725 (sintesi di grandmere) – DOSTOEVSKIJ: IL MALE, LA MALATTIA e LA MORTE (SINTESI DI A: D’ALBIS)

Pochi forse hanno sentito parlare della “scuola 725” ed è proprio per avercela fatta conoscere che va al nostro docente, prof. Creuso, il nostro grazie.

E’ stata una “scuola”, aperta nella profonda periferia romana, al numero civico 725, negli anni 60 da un sacerdote che potremmo definire di frontiera, uno di quei preti che vivono la loro vocazione accanto agli ultimi. Si chiamava don Roberto Sardelli ed è scomparso solo due anni fa.

La sua era stata una vocazione “adulta” e, una volta ordinato prete, fu assegnato a una parrocchia della periferia di Roma attigua alla baraccopoli sorta sotto l’acquedotto Felice (dal nome di Papa Sisto V che lo fece costruire per portare acqua alla città di Roma e alla sua villa).

Nel periodo 1967/68 c’erano circa 700 famiglie a vivere in pochi metri quadrati nella baraccopoli: non avevano acqua, nè servizi igienici, né corrente elettrica: un vero inferno. Don Roberto acquistò una di quelle baracche da una prostituta e cominciò a vivere tra quella gente dimenticata da tutti.

Era ancora il tempo in cui nelle classi differenziali venivano confinati tutti i ragazzi che non corrispondevano al cliché dello scolaro integrato e molti dei ragazzi delle baracche finivano in quei ghetti e don Roberto  cominciò a raccoglierli nelle ore pomeridiane, al numero 725, per aiutarli nei compiti e per aiutarli a costruirsi una coscienza civile. A questo fine, per renderli cioè consapevoli delle ingiustizie che stavano subendo, dopo i compiti, i ragazzi leggevano Gandhi e Malcom X.

Il libro più usato era il Dizionario, perchè saper conoscere e usare le parole è di fondamentale importanza per saper rivendicare i propri diritti. I ragazzi, insieme a Don Roberto, scrivono il loro libro di testo intitolato” NON TACERE” che verrà poi dato alle stampe.

Don Roberto non esitò nemmeno ad allacciarsi abusivamente alla rete elettrica, subito imitato da tutti gli altri che si autodenunciarono, ottenendo così il riconoscimento del loro diritto all’illuminazione delle proprie case.

Poi la baraccopoli fu abbattuta e gli abitanti trasferiti ad Ostia Nuova, un quartiere senza anima, dove gli antichi rapporti tra le famiglie andarono perduti e la criminalità in breve si diffuse e dettò le sue regole spietate.

Don Roberto scrisse molti libri sulla sua esperienza nella scuola 725, sul suo  successivo impegno con gli ammalati di AIDS e con i ROM e, prima di morire, ricevette una laurea “honoris causa”.

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Continuano le lezioni del nostro docente Don Ivano Colombo su Fedor Dostoevskij. Questo scrittore non è catalogabile con gli schemi della storia della letteratura. Egli non è un filosofo, non è uno psicologo, né un sociologo o uno psicanalista, ma è unno scrittore di romanzi, un narratore.

Molto probabilmente, le sue storie si rifanno a storie vere sentite nei tribunali che il nostro scrittore frequentava assiduamente.Dostoevskij scrive soprattutto per mantenersi, dopo le vicende drammatiche che lo hanno colpito, ma scrive anche per comprendere e spiegare il suo vissuto e per far conoscere il suo pensiero circa l’esistenza umana.Certamente, dunque, nelle vicende che narra possiamo trovare molti elementi autobiografici.

La sua vita è costellata da molti momenti drammatici e il male lo insegue e lo perseguita di continuo. La madre muore di tisi nel 1837 e il padre, uomo dal carattere violento, viene ucciso, nel 1839, in uno strano incidente. Dopo la morte del padre, Dostoevskij comincia a soffrire di crisi epilettiche. Per dieci anni si dedica alla letteratura, poi, per curiosità, partecipa, come uditore, alle riunioni di una società segreta con scopi sovversivi. Viene arrestato, imprigionato, condannato a morte, graziato all’ultimo momento e deportato in Siberia. Quando ritorna dalla Siberia, Dostoevskij scrive il libro: “Memorie del sottosuolo”, nel quale usa la “prima persona”.

Don Ivano ci spiega che tanti scrittori scrivono in “prima persona”, come Silone ne: “Il segreto di Luca”. Tuttavia, questo è un “io narrante” e, mentre leggiamo, capiamo che lo scrittore non c’entra niente con le vicende raccontate.

Nelle opere di Dostoevskij, invece, si capisce che l’io narrante sottolinea che le vicende narrate sono anche le sue esperienze. Nell’introduzione a un’edizione di: “Memorie del sottosuolo”, Alberto Moravia pone l’attenzione alla componente religiosa delle opere di Dostoevskij e sottolinea che in esse dobbiamo cercare l’ “anima.

La parola ”anima” ha significati diversi: nel cristianesimo si contrappone al “corpo”, mentre nell’accezione greca significa psiche e non ha significato religioso.

Nel romanzo: “L’Idiota”, il personaggio del principe Miskin rappresenta l’uomo “buono” per eccellenza, una persona dal carattere pacifico che fa sempre e solo azioni benefiche, ma che, in una società pervasa dal “male”, appare “sciocco”.

In questo romanzo, la condanna a morte viene raccontata più volte perché Dostoevskij vuole dimostrare che essa non è una soluzione al male, anzi è un “male” essa stessa. La risposta dello Stato che uccide chi ha commesso un omicidio, è una risposta pari, speculare, è ancora “male” e, soprattutto, non serve!

Il “male” trova il suo apice nel romanzo: “Delitto e castigo”. In quest’opera, che si ispira alla lettura che Dostoevskij fa dell’opera di Beccaria: “ Dei delitti e delle pene”, lo scrittore entra nella coscienza dell’esecutore dell’omicidio descritto.

Più che il delitto, per lo scrittore conta il rovello tormentoso della coscienza dell’assassino, perché è lì che si produce il male. Il rimorso, dunque, diventa un castigo più pesante della prigione o della deportazione o del carcere più duro. Il tormento della coscienza, diventa, anche, l’itinerario del recupero.

In contemporanea con “Delitto e Castigo”, Dostoevskij pubblica un altro romanzo. “ IL giocatore”, scritto in poco tempo per pagare dei debiti di gioco. Qui lo scrittore analizza la mania del gioco d’azzardo che porta alla perdita, non solo nel gioco, ma anche nell’animo. Tuttavia, anche in questo romanzo, affiora la speranza della resurrezione. Dostoevskij, infatti, non vede solo il male.

Alla fine di ogni romanzo viene fatta balenare la “speranza”, anche se non diventa mai evidente la storia positiva che potrebbe scaturire da essa.