Raccontando…

I racconti di nonno Pippo:

Mia madre aveva eliminato una gonna in tessuto pied-de-poule, che le era venuta stretta o che non le piaceva più, ma visto che i tempi consigliavano un uso oculato delle scarse risorse di famiglia, le venne l’ idea di ricavare da quella stoffa un paio di pantaloncini per me. Si mise al lavoro e in poco tempo i pantaloncini furono pronti. Fu così che , dovendo uscire , mi mise su una sedia per cambiarmi, (dovevo avere  4 o 5 anni) ma quando io vidi che voleva farmi indossare dei pantaloni ricavati da una gonna, mi ribellai :” Cosa da fìmmine è!!!” Mia madre non voleva sentire ragioni e più io strillavo, più lei si invcaponiva, più io mi divincolavo, più lei si convinceva che ci volevano le maniere forti e mi sculacciò fino a che mi arresi….

Certo fu per il ripetersi di episodi come questo che un giorno scappai di casa e mi allontanai parecchio dal mio quartiere. Una signora a un certo punto si accorse  di quel bimbo piccolo che se ne andava tutto solo e mi prese per mano…fece avvisare le guardie municipali che già erano state allertate e mi riportarono  a casa. E fu certo per sfuggire alle proibizioni di mia madre che un giorno la chiusi in cucina (la cui porta poteva essere chiusa dall’esterno) , presi una sedia , la accostai al comò su cui c’ erano i profumi e le creme di mia madre ( così io credevo), presi una boccetta e me la versai in testa. Dopo pochi istanti un liquido vischioso, biancastro e maleodorante  cominciò a colarmi sugli occhi facendomi impazzire dal bruciore. Cominciai a gridare, ma mia madre non poteva uscire dalla cucina e a sua volta si mise a gridare chiedendo aiuto. Acoorsero le vicine, che aprirono la porta della cucina e finalmente fui ripulito: quello che avevo scambiato per un profumo era invece il sidol, il prodotto per pulire il rame!!! Naturalmente anche quella volta finii col prendermi una bella (e meritata) sculacciata.

Sere d’ inverno…senza TV.

Quando le ore di luce si accorciano sempre più, le serate sembrano interminabili ; così è in questi giorni e così era tanti anni fa quando ancora non c’ era la tv a far compagnia alla gente.

Ricordo (ero molto piccola),  che ci si ritrovava  nell’ unico locale riscaldato che faceva da cucina e da soggiorno : mia madre indaffaratissima come sempre a preparare gli scaldini (il padléni) da mettere nei “pret”, per intiepidire le lenzuola e le coperte, e a cuocere contemporaneamente la polenta sulla stufa a legna.

Intanto io, che ero la più piccola, potevo permettermi il lusso di tiranneggiare un po’ mio padre, stando sulle sue ginocchia, mentre lui faceva un  solitario a cui io collaboravo sistemando le carte che via via “si liberavano” e questo mi permetteva di imparare a riconoscerle e a metterle in ordine crescente. A volte si univa a noi anche mia sorella, la penultima e allora giocavamo a “rubamazzetto”, all’ “asino” , a “cheva in pataja” ;  quest’ ultimo era particolarmente emozionante per i continui capovolgimenti delle sorti del gioco. Il borbottìo della pentola fumante faceva da sottofondo rassicurante

A volte , dopo cena, venivano i vicini (ricordo Baiòc e Giubèn) e allora i grandi giocavano a briscola, a scopa, a scopone o altri giochi più complessi che non ho mai imparato. Io  stavo incollata a mio padre, sulle sue ginocchia per tutto il tempo, fino a che non mi si chiudevano gli occhi .
Dovevo però stare attenta a seguire alcune raccomandazioni : non dovevo parlare delle carte che lui aveva in mano, né tanto meno mostrare reazioni di gioia o di delusione quando avesse pescato carte importanti o sfortunate. Questo mi faceva sentire partecipe del gioco, che seguivo con molta attenzione. E’ incredibile quante cose si possano imparare, quasi senza accorgersene, col gioco delle carte, soprattutto nell’ ambito matematico.

In particolare però io ero affascinata dai segni impercettibili che i giocatori si scambiavano col partner per indirizzarne il gioco o per segnalare una difficoltà: erano strizzatine d’occhio, alzate di spalle, labbra che si imbronciavano o che venivano appena appena inumidite con la lingua, sopracciglia che si inarcavano per un istante. Erano elementi di un codice per me misterioso, che a poco a poco imparai a decifrare con mia grande soddisfazione.
Il gioco si svolgeva tra una battuta scherzosa e uno “sfottò” bonario e non mancavano accenni ai fatti accaduti durante il giorno; alla fine nessuno aveva vinto niente, né tanto meno perso niente : a tutti era bastato stare piacevolmente in compagnia.
Quando non c’ erano i vicini,  si accendeva la radio per ascoltare un po’ di musica o qualche trasmissione radiofonica:  molto seguito era allora  “Il rosso e il nero” , lo spettacolo  condotto dalla voce calda e amichevolmente sorniona di Corrado. Protagonisti di queste serate erano comici come Enrico Luzi, Alberto Talegalli, Tino Scotti , nomi allora molto conosciuti.
Per le dieci o poco più però la serata terminava: l’indomani tutti dovevamo alzarci molto, molto presto.!

Dormire in un abbraccio di piume.

Quando la mamma la mattina rifaceva i letti, si sentiva lo stesso rumore di quando in autunno camminavi tra le foglie cadute ai piedi degli alberi.
Infatti sopra al  rigido materasso di crine di cavallo c’ era il pagliericcio: un saccone di tela con un’ apertura al centro, pieno di foglie di granoturco che la mamma, entrando con la mano nel saccone,  risistemava ogni mattina. Anche dormirci sopra era un po’ rumoroso: ad ogni movimento le foglie scricchiolavano, ma erano fresche d’ estate e isolanti in inverno.

Poco dopo il saccone non fu più riempito di foglie, ma di piume di gallina e allora rifare i letti voleva dire sprimacciare per bene il “materasso”( proprio come si fa ora coi cuscini riempiti dello stesso materiale) fino a colmare la nicchia che ti aveva accolto durante la notte.
Sprofondare la sera in quella morbidezza era veramente una delizia, perchè ti sentivi avvolgere come in un abbraccio e potevi rigirarti a piacere senza sentire alcun rumore.
Ogni tanto poi la mamma svuotava il materasso e metteva le piume al sole dentro a un grosso recipiente e allora trovavi qualche piuma vagabonda nei posti più impensati.

Ero già grande quando vennero di moda i materassi a molle: erano più razionali e forse anche più igienici, ma ti accoglievano senza “abbracciarti”

Ricordi in libertà…

Qualche anno fa, percorrendo la Pianura  Padana, mi si stringeva il cuore nel vederla così spelacchiata: l’ introduzione delle macchine agricole aveva indotto gli agricoltori a estirpare tutte quelle siepi e quegli alberi, spesso anche improduttivi, che un tempo dividevano i vari campi  o delimitavano il confine tra una proprietà e l’ altra. D’ estate la pianura aveva solo qua e là qualche macchia verde e appariva come  una triste landa battuta dal sole implacabile . D’ inverno , dopo una nevicata, pareva di attraversare la steppa russa : era una sconfinata distesa bianca che si perdeva fino all’ orizzonte desolatamente piatto. Recentemente ho notato una certa inversione di tendenza e ricominciano a comparire le siepi  lungo i  fossi e alberi spontanei che riuniti in boschetti interrompono la monotonia dei fruttetti e dei vigneti con le loro piantine tutte perfettamente allineate e tutte della stessa misura.

Molti anni fa, quando il massimo della tecnologia era la trebbiatrice sull’ aia, vicino a casa mia c’ era un filare di meli molto alti (per questo non vengono più coltivati) dai frutti piuttosto piccoli e dalla polpa croccante : essi venivano per lo più cotti al forno in inverno o usati , opportunamente trattati, per farcire dolci casalinghi. Gli scarti di questa produzione venivano dati alle mucche.

Io penso spesso a quel lungo filare (che certo ora nessuno ricorderà nemmeno più) perchè era il luogo in cui ci davamo convegno noi bambini. Gli alberi alti ombreggiavano una striscia di prato spontaneo ed era lì che ci sedevamo a parlare o a fare il gioco del fazzoletto ; lì sotto giocavamo a bandiera e gli alberi ci offrivano ottimi rifugi per giocare a nascondino. Sul viottolo sterrato che si snodava lì accanto, spesso i maschi giocavano a pallone o rincorrevano un vecchio cerchione di bicicletta. Ricordo ancora il profumo dell’ erba su cui facevamo le gare di capriole. Spesso poi ci dedicavamo all’ assaggio dei frutti ancora acerbi : come scordare il sapore aspro delle mele o delle albicocche appena formate, o quello degli acini d’ uva che schiacciati sotto i denti ti facevano venire i  brividi … al solo pensarci mi viene ancora l’ acquolina in bocca. Quando le spighe di grano cominciavano a imbiondire ,  ne prendevamo una e la schiacciavamo a lungo tra le mani con un movimento simile a quello delle macine; quando i chicchi di grano uscivano dal loro involucro, con un soffio facevamo cadere la pula e ce li mangiavamo : erano gustosi, anche se un po’ “papposi”.

 Le mamme sapevano che, se non ci vedevano attorno a casa, dovevamo essere lì: “sòta ai pom” (sotto i meli) e allora si affacciavano alla finestra e ci chiamavano a gran voce.

Il IV Novembre per me….

…..è l’Italia che trova la sua unità

attingendo al sacrificio di tanti ragazzi;
è la morte dei miei nonni
(uno dei quali giovanissimo);
è la rovina delle loro famiglie numerose,
rimaste allo sbando;
è la vita piena di stenti di due bambini
diventati poi i miei genitori.

Pantaloncini corti anche d’ inverno.

Aprendo gli occhi la mattina poteva capitare di vedere i vetri delle finestre arabescati da strane forme che il ghiaccio aveva inventato durante la notte,  allora mi rincantuccciavo sotto le coperte per godere ancora per un po’ il loro tepore . Alla fine però bisognava alzarsi e la stanza era talmente fredda che battevo i denti mentre mi rivestivo.  Per fortuna  la cucina era ben riscaldata dalla stufa a legna, accesa da mia madre che era alzata già da un paio d’ ore.

Quando faceva così freddo, andare a scuola a piedi non era molto piacevole: i piedi diventavano in breve dei pezzi di ghiaccio e la nebbia, che era frequentissima, ti si congelava sui capelli che spuntavano dal berretto e formava uno strano,  effimero diadema, che sarebbe scomparso appena entrati in classe. Andavamo a scuola insieme noi bambini dei dintorni e il gruppo si ingrossava lungo il percorso. Chiacchierando e ridendo,  camminavamo di buon passo per riscaldarci un po’, ciononostante i maschietti , che non so per quale motivo portavano i calzoni corti anche d’ inverno, avevano spesso le ginocchia violacee (o come si dice da noi “murèli”).

La sera , prima di cena mia madre preparava “il padléni” , cioè gli scaldini: sul loro fondo coperto di cenere metteva un bel mucchietto di braci prese dalla stufa o dal camino e lo copriva con altra cenere . Ogni “padléna” veniva infilata nel “prete” : un attrezzo di legno che teneva sollevate le coperte del letto e dentro al quale si infilava lo scaldino. Spesso però il calore che proveniva da dentro il letto, faceva sì che sulle coperte si condensasse un velo di umidità. Non era neanche raro il caso che qualcosa andasse storto e che le braci danneggiassero il letto.

Quando la sera veniva l’ ora di andare a dormire, era difficile staccarsi dal calduccio della cucina per tuffarsi nel gelo delle camere e non vedevi l’ ora di cacciarti nel letto caldo .

Ora che basta schiacciare un pulsantino o un interruttore per avere tutto il caldo che si desidera, sembra impossibile che fino a non molto tempo fa il freddo potesse condizionare tanto pesantemente la vita della gente.

Quando una telefonata impegnava un pomeriggio.

– Puoi venire con me a telefonare? – Mi aveva chiesto la mia amica Maria. Certamente non potevo rifiutarle questo piacere. Eravamo agli inizi degli anni sessanta e ci trovavamo in una casa di montagna in Val Camonica, lontano dai centri abitati
Si era alla fine di giugno, ma come capita spesso in montagna, l’estate sembrava scomparsa di colpo: pioggia mista a nevischio e vento gelido ci sferzarono durante tutto il cammino lungo una strada sterrata, che sembrava appesa al fianco della montagna; finalmente vedemmo l’agognata insegna del telefono pubblico accanto a quella di un bar isolato su quella che più che una strada sembrava una mulattiera.
Al nostro ingresso fummo assalite dall’odore di vino e di tabacco, mentre alcune facce di montanari segnate dalle fatiche e dal tempo ci scrutarono stupite; certamente si chiedevano cosa ci facessero  lì due ragazze con quel tempaccio .
Maria non si perse d’animo e si avvicinò al gestore chiedendogli di poter chiamare al telefono la persona che doveva contattare.
Il centralino dopo un po’ ci disse di attendere. E noi attendemmo in un angolo pazientemente.

Il fatto è che il centralino doveva contattare il posto pubblico della località interessata, lì  qualcuno doveva andare a chiamare la persona richiesta, che a sua volta doveva raggiungere il posto telefonico pubblico e dare l’ok . A questo punto la telefonata poteva aver luogo  e se il gestore era dotato di contatore, la telefonata poteva procedere tranquillamente, ma se dovevi inserire i gettoni dovevi stare attento al bip che segnalava la prossima fine del collegamento.
Quando Maria potè telefonare era ormai passato tutto il pomeriggio e rientrammo alla base che faceva quasi buio.

Ai nostri giorni tutto questo sembra appartenere alla preistoria, perciò  io non finirò mai di restare a bocca aperta davanti ai progressi attuali dei mezzi di comunicazione.

Due “put”

Vicino alla casa in cui abitavo da piccola, c’ era un grosso casolare ; lì abitava una famiglia composta da tre fratelli, di cui uno solo era sposato con figli, gli altri due erano scapoli o  “put”, come si dice da noi.

Primo  era leggermente claudicante e camminava aiutandosi con un bastone: forse da piccolo era stato colpito, come tanti bambini a quei tempi, dalla poliomielite. Aveva, nonostante ciò, un portamento elegante e  modi signorili:  sorriso sempre pronto e una parola gentile per tutti noi bambini. Parlava  lentamente e non l’ ho mai visto  arrabbiato, per questo io lo consideravo un uomo molto saggio. Nei momenti liberi si sedeva davanti alla porta di casa col cappello a coprirgli i radi capelli grigi e le mani appoggiate al bastone e salutava tutti quelli che passavano davanti alla casa.

L’altro fratello, di nome Adelmo, era invece tutto l’ opposto:  piuttosto tarchiato, viso abbronzato e modi sanguigni.

Era lui che si dedicava ai lavori più pesanti e spesso, verso sera , in estate ,  lo si sentiva  cantare a squarciagola o richiamare a gran voce la Lola o la Bianchina : allora tutti capivano che stava mungendo le mucche  e tutti sorridevamo divertiti da quell’ allegria chiassosa.

Nelle famiglie patriarcali c’ era sempre qualche figlio o figlia che rinunciava a sposarsi per dedicarsi alla cura dei genitori o delle proprietà della famiglia , che così conservava intatto il suo  patrimonio.